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L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti. Ipotesi e aspettative di superamento

Life inprisonment whitout hope in the dialogue between the Courts. Hypotheses and expectations of overcoming
Independence Day, l'astratto a fuoco
Ph. Giacomo Porro / Independence Day, l'astratto a fuoco

Articolo pubblicato nella sezione L’universo della pena del numero 1/2020 della Rivista "Percorsi penali".

 

Abstract

L'ergastolo c.d. "ostativo" si pone, fin dai tempi della sua introduzione normativa, come una frattura della tensione costituzionale di ogni pena alla restituzione dell'individuo in società. Da anni, però, si assiste - nella giurisprudenza interna ed internazionale - ad una progressiva erosione dei meccanismi normativi di preclusione che impediscono l'accesso di ogni detenuto alla valutazione del proprio percorso individuale di cambiamento e dei propri traguardi trattamentali.

Life inprisonment whitout hope is, ever since it was provided for by law, a breach of the goal of the penalty according to the Constitution of returning man to society. For years, however, we have witnessed - in domestic and international jurisprudence - a progressive erosion of the regulatory mechanisms of foreclosure that prevent each prisoner from accessing the assessment of their individual path of change and their treatment goals

 

Sommario

1. L'ergastolo c.d. ostativo, fine pena 9999, la morte per pena

2. L'ergastolo "effettivo" nella Giurisprudenza della Corte EDU

3. Molto ancora c'è da fare. Le preclusioni assolute di cui agli artt. 4-bis e 58-ter O.P. tornano alla Consulta

4. Riflessi potenziali o sperati della sentenza 'Viola v. Italia' sull'art. 41-bis, co. II O.P.

 

Summary

1. Life imprisonment c.d. impediment, end of sentence 9999, death by penalty

2. The "effective" life sentence in the Jurisprudence of the European Court of Human Rights

3. There is still a lot to do. The absolute foreclosures referred to in Articles 4-bis and 58-ter O.P. they return to the Constitutional Court

4. Potential or hoped-for reflections of the “Viola v. Italy” on art. 41-bis, co. II O.P.

 

1. L'ergastolo c.d. ostativo, fine pena 9999, la morte per pena

L'ordinamento giuridico italiano contempla, quale sanzione massima irrogabile in caso di commissione di gravi delitti, la pena dell'ergastolo.

Il c.d. “fine pena mai” è previsto dall'art. 22 c.p. che testualmente recita: «La pena dell'ergastolo [c.p. 17, n. 2] è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno [c.p. 29, 32, 36, 72]. Il condannato all'ergastolo può essere ammesso al lavoro all'aperto [c.p. 176]»[1].

La norma fa esplicito richiamo a due disposizioni del codice penale: l'art. 17, che prevede le pene principali stabilite per i delitti e per le contravvenzioni; l'art. 176, che introduce la liberazione condizionale.

Il rinvio operato dall'art. 22 c.p. a tali articoli di legge assume estrema importanza. Per quanto concerne l'art. 17 c.p., pone in evidenza la necessità, per volontà del Costituente, che le pene siano previste dalla Legge. La libertà è, infatti, nel nostro sistema giuridico, un diritto fondamentale protetto da un doppio schermo di tutela: la riserva di legge e la riserva di giurisdizione. Ciò comporta che nessuna menomazione delle libertà individuali può intervenire se non è una legge (o un atto ad essa equiparato come decreto-legge o decreto legislativo delegato) a prevederlo e, inoltre, che la privazione della libertà deve avvenire sempre sotto lo stringente controllo del giudice competente. Per quanto concerne l'art. 176 c.p., radica un collegamento imprescindibile, anch'esso di matrice costituzionale, tra l'espiazione della pena e la possibilità di ravvedimento e di conseguente reinserimento in società.

Secondo l'art. 176 c.p. «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se ha scontato almeno trenta mesi e comunque almeno metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della pena non superi i cinque anni.

Se si tratta di recidivo, nei casi preveduti dai capoversi dell'articolo 99, il condannato, per essere ammesso alla liberazione condizionale, deve avere scontato almeno quattro anni di pena e non meno di tre quarti della pena inflittagli.

Il condannato all'ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena.

La concessione della liberazione condizionale è subordinata all'adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato [c.p. 185], salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell'impossibilità di adempierle [c.p. 230]»[2].

L'inserimento dell'art. 176 nel codice penale ha pregnanza strutturale. Rappresenta icasticamente la pena e la sua funzione ordinamentale quale strumento non solo punitivo ma, soprattutto, restitutivo. La pena ha senso se è diretta al ritorno della persona ristretta alla vita libera.

La pena dell'ergastolo, infatti, in sé appare incoerente ed inconciliabile con il dettato dell'art. 27 della Costituzione secondo cui la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato.

La prima parte della norma ha natura precettiva, crea un obbligo a carico dello Stato di Diritto che è di risultato immediato: ove la punizione comporti una lesione dei diritti soggettivi del ristretto che si traduca in “trattamento inumano o degradante”, è certamente illegittima. La seconda parte della norma ha, invece, portata programmatica. Anch'essa prevede obblighi positivi a carico dello Stato, ma sono quelli di offrire alle persone recluse gli strumenti per recuperarsi e non certo di garantire l'effettività del recupero o il risultato del ravvedimento.

E proprio la tensione al reinserimento del condannato appare un aspetto inconciliabile con l'ergastolo se sottraiamo dall'ordinamento la possibilità che la pena non sia effettivamente fino alla morte ma consenta al detenuto, che abbia dimostrato di meritarlo, una seconda opportunità.

La liberazione condizionale, dunque, costituisce la possibilità concreta per il recluso ravveduto di fare ritorno in società.

Alla stessa è previsto che la persona condannata possa giungere attraverso una osservazione intramuraria e, man mano che espia la sua pena, attraverso momenti di osservazione esterna via via più dilatati nel rispetto di un altro principio, anch'esso di valenza costituzionale: la progressione trattamentale. L'ordinamento, dunque, offre al detenuto l'opportunità di dimostrare l'effettività del proprio recupero gradatamente, risultando illogico che una persona torni libera in società senza che se ne sia testato il comportamento nell'approccio con il mondo esterno. Ciò corrisponde innanzitutto a un'esigenza di sicurezza ma anche alla necessità che il ristretto riprenda il contatto con il contesto sociale in modo progressivo e non traumatico. L'ordinamento penitenziario prevede, a tal fine, una serie di misure di reintegrazione: dal permesso premio, considerato parte del percorso trattamentale, che consente un primo, brevissimo, contatto con l'esterno, alle misure alternative alla detenzione (semilibertà, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, fino alla liberazione condizionale).

Esiste, tuttavia, nell'ordinamento italiano una serie di reati, racchiusi nell'art. 4-bis, comma I, dell'ordinamento penitenziario per i quali nessun beneficio premiale è consentito (così era fino alla sent. n. 252 del 2019 della Consulta[3], v. infra).

La normativa speciale, art. 4-bis Ordinamento Penitenziario, è stata introdotta con il decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152[4] (convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203) per rispondere ad un periodo di peculiare allarme sociale determinato dalla recrudescenza, soprattutto in Sicilia, del fenomeno mafioso in virtù del verificarsi di numerosi omicidi. In quegli anni, in particolare con l'impegno dei Giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, si tentava di porre un freno alla ascesa criminale di un'associazione che appariva sempre più potente, sanguinaria ed inarrestabile. Lo strumento limitativo dell'art. 4-bis O.P., ponendosi come ostacolo per le persone detenute che avevano commesso reati di particolare pericolosità, tendeva ad incentivare la collaborazione con la giustizia.

La fruizione di ogni beneficio penitenziario, infatti, a partire dai permessi premio fino ad arrivare alla liberazione condizionale, era preclusa per i ristretti che, macchiatisi dei crimini individuati dalla norma di riferimento, non avessero offerto una collaborazione utile con la attività investigativa dello Stato.

Non bastava, dunque, che il detenuto avesse apportato delle dichiarazioni di auto-accusa ovvero delle indicazioni a carico di altri. Per essere produttiva di effetti, la collaborazione doveva essere “utile”, ossia idonea a raggiungere nuove persone con accuse di reità.

L'art. 58-ter O.P., infatti, individua la categoria delle "persone che collaborano con la giustizia" nelle «persone condannate per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater dell'art. 4-bis che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta degli elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati»[5].

Tale sistema, tuttavia, conteneva in sé un'ambiguità che si traduceva in alcuni casi nella impossibilità per il condannato di accedere ai benefici nonostante avesse la volontà di collaborare con la giustizia.

Accadeva infatti che alcune persone, pur responsabili di reati associativi avessero avuto una partecipazione minima al consesso sodale tale che non avessero, in effetti, elementi di conoscenza sulle dinamiche interne ovvero sui soggetti coinvolti, anche in ragione dell'omertà e della segretezza connaturate a quei sodalizi delinquenziali.

Accadeva, ancora, che gli elementi di conoscenza di cui erano portatori, fossero già stati svelati dalle indagini giudiziarie per cui, incolpevolmente, non avevano ulteriori elementi da addurre, fatti da confessare, soggetti da accusare.

A sanare tale anomalia, è intervenuta la Corte Costituzionale dapprima con sentenza n. 68/1995[6] e, successivamente con sentenza n.  357/1994[7] ed ha rilevato come fosse illegittimo non tenere in considerazione, al fine di concedere i benefici, quelle situazioni in cui per partecipazione minima al fatto, obiettivo difetto di conoscenza o integrale accertamento dei fatti, non fosse possibile chiedere al condannato un apporto collaborativo, sempre che fossero stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.

L’art. 4-bis, comma 1-bis, O.P., pertanto, dopo aver disposto che i condannati per una serie di "delitti ostativi" possono essere ammessi ai benefici penitenziari solo nei casi in cui collaborino con la giustizia a norma dell'art. 58-ter, stabilisce anche che i benefici possono essere ugualmente concessi a quei detenuti, «purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti o delle responsabilità, operata con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia»[8].

Appare immediatamente evidente come la Corte Costituzionale si muova sempre, anche laddove riscontra la incoerenza di una norma rispetto al dettato costituzionale, ponendo in essere un difficile contemperamento di interessi tra diritti aventi portata ordinamentale primaria o – per così dire – di pari rango.

Da un lato, infatti, si pone l'art. 27 della Costituzione e la tensione di ogni pena alla rieducazione ed al reinserimento della persona condannata; dall'altro si pone il diritto generale, che fa capo all'intera comunità, a che sia preservata la sicurezza sociale, compito particolarmente delicato ed impegnativo a fronte di pulsioni antisociali come quelle dei consessi associativi criminali.

Così, già la giurisprudenza meno recente poneva a perno della possibilità di ottenere benefici premiali per il ristretto riconosciuto come facente parte di una associazione delinquenziale, la dimostrabilità della interruzione dei suoi contatti o collegamenti con l'organizzazione di originaria appartenenza. Una dimostrazione non sempre agevole che spesso si traduce in una sorta di probatio diabolica che pone a carico del detenuto l'onere di offrire una tutt'altro che agile dimostrazione in negativo a fronte della presunzione, che trae origine da massime di esperienza, della indissolubilità del vincolo di un sodalizio mafioso. E, tuttavia, la scelta legislativa avallata dalla Consulta si giustifica proprio con l'esigenza di uno Stato di Diritto di offrire protezione ai cittadini da un fenomeno la cui pervasività e la cui pericolosità sono tristemente noti.

Già nel lontano 1974, era stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 22 del codice penale laddove contempla la pena dell'ergastolo.

La pena fino alla morte, si era detto, non può apparire coerente con la funzione rieducativa della pena. L'argomento logico appare stringente in effetti. Che senso avrebbe per la persona detenuta aderire all'offerta trattamentale, intraprendere percorsi di rivisitazione critica, risarcire i danni prodotti alle vittime di reato se non potrà mai aspirare ad una seconda opportunità?

La Consulta, tuttavia, aveva ritenuto la questione infondata[9], affermando che: «l'istituto della liberazione condizionale disciplinato dall'art. 176 c.p. [...] consente l'effettivo reinserimento anche dell'ergastolano nel consorzio civile»[10].

D'altronde, la Corte Costituzionale si era già pronunciata sull'importanza fondamentale dell'istituto della liberazione condizionale in rapporto all'art. 27 Cost.: «l'istituto della liberazione condizionale rappresenta un particolare aspetto della fase esecutiva della pena restrittiva della libertà personale e si inserisce nel fine ultimo e risolutivo della pena stessa, quello, cioé, di tendere al recupero sociale del condannato. Per esso, infatti, il condannato che abbia, durante il tempo della esecuzione, tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento e che abbia soddisfatto, avendone la capacità economica, le obbligazioni civili derivanti dal commesso reato, può essere posto in libertà prima del termine previsto dalla sentenza definitiva di condanna, previa imposizione, da parte del giudice di sorveglianza, incaricato dell'esecuzione del provvedimento, di prescrizioni idonee ad evitare la commissione di nuovi reati (artt. 228, secondo comma, e 230, primo comma, n. 2, del codice penale).

Con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione l'istituto ha assunto un peso e un valore più incisivo di quello che non avesse in origine; rappresenta, in sostanza, un peculiare aspetto del trattamento penale e il suo ambito di applicazione presuppone un obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle.

Sulla base del precetto costituzionale sorge, di conseguenza, il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo; tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale»[11].

La tenuta costituzionale dell'ergastolo risiederebbe, dunque, nel fatto che per il detenuto meritevole e ravveduto, trascorsi 26 anni di carcerazione, possano riaprirsi le porte alla libertà.

Il problema, tuttavia, si pone con l'introduzione di quella peculiare tipologia di ergastolo, ossia quello c.d. “ostativo”.

Ostativo è il “fine pena mai” comminato per reati racchiusi nell'art. 4-bis O.P. in virtù del quale, come si è visto, è precluso l'accesso a qualsivoglia misura di favore se non si collabora con la giustizia.

La disarmonia di sistema che sembrava prospettarsi rispetto alle esigenze di reinserimento in società di qualunque detenuto veniva presto portata all'esame della Consulta. Quest'ultima, tuttavia, riteneva che l’ergastolano che sceglie liberamente di non collaborare con la giustizia non può beneficiare dell’istituto della liberazione condizionale. Così dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui «in assenza della collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordinamento, non consente al condannato alla pena dell’ergastolo per uno dei delitti indicati nella disposizione censurata di essere ammesso alla liberazione condizionale». Secondo la Corte: «La preclusione prevista dall'art. 4 bis, comma 1, primo periodo, dell'ordinamento penitenziario non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare pur essendo nelle condizioni di farlo: tale disciplina non preclude pertanto in maniera assoluta l'ammissione al beneficio, in quanto al condannato è comunque data la possibilità di cambiare la propria scelta»[12].

Il presupposto della decisione della Corte Costituzionale, ossia che il detenuto possa liberamente scegliere se collaborare o non, tuttavia, presentava profili di criticità posti in rilievo negli anni da giuristi e accademici.

A destare dubbi è il concetto di libera scelta che presta il fianco a numerose eccezioni.

Libera è, infatti, una decisione che non comporti per il ristretto e per i suoi familiari pericoli di ritorsioni risultando ben noto come chi accusa taluno di un reato pone sé stesso ed i propri congiunti a rischio di vendette. Libera è, ancora, la volontà di chi non debba arrecare un danno alla vita dei propri cari come essere sradicati dal proprio contesto territoriale nel quale, magari, hanno costruito una vita sociale sana e un proprio nucleo familiare del tutto esule da dinamiche delinquenziali. Libera è, infine, la scelta di chi abbia commesso i crimini che gli sono contestati non potendo operare una presunzione di infallibilità del giudizio e risultando plausibile anche l'ipotesi di una condanna emessa a carico di chi il reato non lo ha commesso[13].

Vale appena il caso di evidenziare come la collaborazione nulla abbia a che vedere con la autenticità e compiutezza del ravvedimento. Spesso se non sempre è mossa da spinte meramente utilitaristiche, non è sincera e autentica, approda ad accuse false e a sentenze di condanna inique. «Ben può essere frutto», dice la Corte Costituzionale, «di mere valutazioni utilitaristiche»; «dalla mancata collaborazione non può trarsi [..] indice univoco che si mantengano legami di solidarietà con l’organizzazione criminale»[14].

La pronuncia appena citata, pur respingendo la questione di legittimità dell'art. 4-bis, offre importanti riflessioni in tema di conciliabilità di ergastolo ostativo e art. 27 della Costituzione: «In questo quadro appare certamente rispondente alla esigenza di contrastare una criminalità organizzata aggressiva e diffusa, la scelta del legislatore di privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività, attribuendo determinati vantaggi ai detenuti che collaborano con la giustizia. Non si può tuttavia non rilevare come la soluzione adottata, di inibire l'accesso alle misure alternative alla detenzione ai condannati per determinati gravi reati, abbia comportato una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena. Ed infatti la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di "tipi di autore", per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita. Inoltre, non può non destare serie perplessità, pur in una strategia di incentivazione della collaborazione, la vanificazione dei programmi e percorsi rieducativi (in atto magari da lungo tempo) che sarebbe conseguita alla drastica impostazione del decreto-legge, particolarmente nei confronti di soggetti la cui collaborazione sia incolpevolmente impossibile o priva di risultati utili e, comunque, per i soggetti per i quali la rottura con le organizzazioni criminali sia adeguatamente dimostrata»[15].

Premessa, dunque, la generale ed avvertita esigenza di protezione del tessuto sociale da una criminalità particolarmente aggressiva ed odiosa, la Consulta evidenziava, tuttavia, la sussistenza di un problema di adattamento della disciplina di preclusione alle esigenze di rieducazione.

Il concetto di dignità dell’uomo cui aspira l'intero tessuto costituzionale, viene, infatti, annichilito se la pena comporta lo spegnimento di ogni aspettativa futura[16].

L’ergastolano ostativo si trova in un sistema in cui è chiamato alla rieducazione ma senza aspirazione al recupero sociale, un sistema espressione di una funzione etica e punitiva dello Stato che non tiene conto del soggetto come individuo ma lo racchiude all'interno di una categoria (il tipo di reato commesso) rispetto alla quale perde valore il suo comportamento e la sua spinta individuale al cambiamento[17].

Non è una pena dinamica, in movimento, tesa ad accompagnare l’individuo al suo rientro nel sociale. È una pena in cui lo Stato esprime una preferenza per la protezione a svantaggio della rieducazione mancando, in tal modo, di offrire una visione lungimirante dell'essenza e dello scopo della pena assai più utile per la società se non ha tensione eliminativa bensì restitutiva; se è tesa a recuperare la persona che delinque anziché ad escluderla definitivamente dal consesso dei liberi.

Tale soluzione, seppure sorretta da una comprensibile necessità di prevenzione rispetto a una fenomenologia criminale di assoluta pericolosità, si traduce nella mortificazione del lavoro dei tanti soggetti che nelle carceri, insieme ai detenuti, perseguono quel traguardo di restituirli al contesto sociale: gli educatori, gli psicologi, la polizia penitenziaria, vedono interrotto il loro impegno di aiuto ai ristretti da uno sbarramento normativo che è comunque esclusione.

L’ergastolo ostativo è, ancora un atto di sfiducia del legislatore nei confronti della Magistratura di Sorveglianza.

Il Giudice di Sorveglianza, cui l’ordinamento assegna l’altissima funzione di vigilare sul detenuto e di garantire il rispetto dei suoi diritti, anche laddove l’osservazione lo convince di un cambiamento già intervenuto nel segno del rientro in società, dovrà arrestarsi davanti alla preclusione dell’art. 4-bis. Preclusioni assolute e automatismi normativi posti in più occasioni al bando dalla Corte costituzionale eppure ancora mantenuti per l’ergastolo ostativo sulla fallace argomentazione della possibilità di superamento attraverso la collaborazione con la giustizia[18]

Assai rilevante, ai fini che qui interessano, appare la recente sentenza della Corte costituzionale n. 149/2018 che, nel dichiarare l’illegittimità dell’art. 58-quater, co. IV, l. n. 354/1975 nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 c.p. che abbiano cagionato la morte del sequestrato, fornisce importanti chiarimenti e spunti di riflessione in ordine all’ergastolo ostativo.

La Consulta rileva innanzitutto che subordinare l’accesso a qualsivoglia beneficio penitenziario all’avvenuta espiazione di almeno 26 anni di pena per i condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 c.p. che abbiano determinato la morte della persona posta sotto sequestro stride irrimediabilmente con «il principio – sotteso all’intera disciplina dell’ordinamento penitenziario in attuazione del canone costituzionale della finalità rieducativa della pena – della “progressività trattamentale e flessibilità della pena” [...], ossia del graduale reinserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale durante l’intero arco dell’esecuzione della pena» (§ 5, Considerato in diritto) [corsivo nostro][19].

La Corte sottolinea l’importanza, ai fini del miglior esito del percorso rieducativo del condannato, del godimento nel tempo di benefici graduali, proporzionati e dipendenti dalla correttezza del comportamento tenuto dal ristretto durante la detenzione e dalla conquista maturata di senso di responsabilità ed adesione a modelli comportamentali non deviati.

Ebbene, la disciplina censurata, secondo i Giudici di legittimità, «sovverte irragionevolmente questa logica gradualistica [...] sterilizzando ogni effetto pratico delle detrazioni di pena a titolo di liberazione anticipata sino al termine di ventisei anni e riducendo fortemente, per il condannato all’ergastolo, l’incentivo a partecipare all’opera di rieducazione»[20].

Un ulteriore profilo di illegittimità della disposizione in quella sede censurata (art. 58-quater, co. IV, O.P.) rilevato dalla Consulta è quello secondo cui il carattere automatico proprio della preclusione temporale all’accesso ai benefici stabilito dalla stessa disposizione priva il Giudice di ogni margine di valutazione in ordine agli esiti del percorso condotto dal condannato durante il periodo di pena già espiato.

Ebbene, «[T]ale automatismo» – prosegue la Corte nella sentenza n. 149/2018 – «contrasta [...] con il ruolo che deve essere riconosciuto, nella fase di esecuzione della pena, alla sua finalità di rieducazione del condannato; finalità ineliminabile [...], che deve essere sempre garantita anche nei confronti di autori di delitti gravissimi, condannati alla massima pena prevista nel nostro ordinamento, l’ergastolo»[21].

Appare evidente che le considerazioni svolte dai Giudici della Consulta nella sentenza citata trascendono i confini propri della disciplina sottoposta al suo esame e, viceversa, involgono – decretandone nella sostanza l’illegittimità – l’istituto dell’ergastolo ostativo cui vengano condannati gli autori dei delitti compresi nell’elenco di cui all’art. 4-bis, co. I, O.P.[22]

I profili di illegittimità rilevati che colpiscono una valutazione che non tenga conto dei traguardi raggiunti dal ristretto con l'adesione piena ai progetti trattamentali, valgono, a maggior ragione, per la disciplina di cui all’art. 4-bis O.P.

Nell’impianto dell’art. 4-bis neppure il decorso di un ampio lasso di tempo è considerato sufficiente; il godimento dei benefici appare, come noto, unicamente subordinato alla decisione del condannato di collaborare con la Giustizia cui è equiparata l’ipotesi in cui la collaborazione sia inutile o inesigibile, una scelta che a mente del legislatore costituisce una sorta di “indice legale di ravvedimento”[23].

Ancora, la Consulta ha chiarito che «incompatibili con il vigente assetto costituzionale sono previsioni che precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso l’accesso ai benefici penitenziari a particolari categorie di condannati – i quali pure abbiano partecipato in modo significativo al percorso di rieducazione e rispetto ai quali non sussistano gli indici di perdurante pericolosità sociale individuati dallo stesso legislatore nell’art. 4-bis o.p.- in ragione soltanto della particolare gravità del reato commesso, ovvero dell’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalità dei consociati. Questi ultimi criteri [...] [non] possono, nella fase di esecuzione della pena, operare in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena»[24].

 

2. L'ergastolo "effettivo" nella Giurisprudenza della Corte Edu

Il tema dell'ergastolo non rivedibile, non comprimibile o effettivo, è stato al centro del celebre ricorso 'Viola contro Italia' (ric. n. 77633/2016) deciso dalla CEDU, Sezione I, il 13.06.2019.

Il ricorrente lamentava la violazione dell'art. 3 CEDU in ragione dell'impossibilità, sancita da una preclusione legislativa, di accedere alle misure alternative alla detenzione, e il difetto di rilevanza di indici positivi di valutazione quale il lungo tempo in stato detentivo e la buona condotta intramuraria. Evidenziava che la condanna all'ergastolo non è de jure et de facto riducibile stante la mancata previsione di un tempo entro il quale il soggetto ristretto sarà rivalutato; l'inadeguatezza del criterio normativo della collaborazione con la giustizia a supportare una efficace verifica dei percorsi trattamentali compiuti dal condannato e dell'effettività del suo ravvedimento e, infine, a sancire la meritevolezza del ristretto di essere reinserito nel consesso sociale.

Tra i precedenti di particolare interesse, si segnala la pronuncia della Corte EDU Trabelsi v. Belgio del 4 settembre 2014[25].

In tale occasione, la Quinta Sezione della Corte EDU ha accolto il ricorso del proponente - estradato dal Belgio verso gli USA, per essere processato quale intraneo a cellule terroristiche - e ravvisato la violazione dell’articolo 3 della Convenzione. In particolare, gli elementi che la Corte considera sono la presenza di un’eventuale “prospettiva di rilascio”, o se il diritto statunitense preveda la “la possibilità di revisione’ di un ergastolo” (commutazione, scarcerazione, liberazione condizionale, ecc.). La Corte ritiene che non vi siano reali rassicurazioni che l'ergastolo inflitto al ricorrente sia in concreto riducibile, mancando, negli Stati Uniti, la specifica previsione di procedure di revisione dell’ergastolo idonee a soddisfare i requisiti dell’articolo 3. Ove estradato negli Stati Uniti, il ricorrente avrebbe avuto quali prospettive di riduzione del “fine pena mai”, unicamente la grazia presidenziale, la valutazione di una malattia terminale, la collaborazione con la giustizia “in investigating or prosecuting another person”. Tale ultima prospettiva, all'evidenza richiama l'istituto interno della collaborazione utile con la giustizia, l'aiuto offerto all'Autorità nelle investigazioni ovvero nel perseguire altre persone.

Tali rimedi sono stati considerati insufficientemente concreti al fine di ritenere l'estradizione coerente al rispetto dell'art. 3 CEDU.

In data 13.06.2019, la Corte EDU ha accolto il ricorso “Viola” ritenendo che ci fosse una violazione dell'art. 3 della Convenzione EDU poiché una pena senza fine si traduce in una menomazione della dignità umana che «è nel cuore del sistema istituito dalla Convenzione e impedisce la privazione della libertà di una persona con la coercizione senza allo stesso tempo lavorare per reintegrarla e per fornirle una possibilità di recuperare questa libertà un giorno»[26].

La Corte Europea non esclude la legittimità della pena perpetua, ma afferma che viola l'art. 3 CEDU una sanzione che non ammetta la speranza di restituzione in società al detenuto meritevole (prospect of release o possibility of review)[27].

La speranza, intesa come possibilità che la pena tenda al recupero del condannato, assurge a valore ordinamentale in difetto del quale la stessa condizione umana risulta menomata.

Prosegue la Corte: «La natura della violazione riscontrata ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato dovrebbe introdurre, preferibilmente per iniziativa legislativa, una riforma del regime dell'ergastolo che preveda la possibilità di un riesame di pena che consenta: alle autorità di determinare se, durante l'esecuzione, il detenuto si è evoluto così tanto e ha progredito sul sentiero dell'emendamento che nessuna ragione legittima di ordine penologico giustifichi ancora la sua detenzione, e, alla persona condannata, di godere del diritto di sapere cosa deve fare per essere considerato per il rilascio e quali sono le condizioni. La Corte ritiene, pur ammettendo che lo Stato possa richiedere la dimostrazione di "dissociazione" dall'ambiente della mafia, che questa rottura possa essere espressa diversamente che con la collaborazione con la giustizia e l'automatismo legislativo attualmente in vigore»[28].

La Corte EDU, dunque, esprime una piena consapevolezza del fenomeno mafioso in Italia e riafferma l'utilità di pratiche che tendano ad ottenere la collaborazione con la giustizia di persone condannate per reati di particolare gravità. Ribadisce la legittimità della pretesa da parte dello Stato italiano di ottenere la prova che il detenuto si sia dissociato dal crimine organizzato e tuttavia specifica che tale dimostrazione può essere fornita anche diversamente.

La pronuncia della Corte EDU è in linea con il precedente orientamento dell'Organo sovranazionale che fin dal 2013, con la pronuncia “Vinter contro Regno Unito” aveva affermato il diritto alla speranza come valore fondamentale in difetto del quale la pena è contraria al senso di umanità[29].

Il Governo italiano impugnava la decisione della Corte sul caso Viola chiedendo che venisse investita di una rinnovata valutazione la Grande Camera.

Il sette ottobre il panel di cinque giudici della Cedu ha deciso: è inammissibile la richiesta del Governo italiano di assegnare alla Grande Camera di Strasburgo il caso ‘Viola v. italia' in materia di ergastolo ostativo. L'esito, seppur non scontato, era in realtà, prevedibile.

L'art. 43 della convenzione Edu, infatti, stabilisce che siano discusse alla Grande Camera soltanto le questioni che presentino seri dubbi interpretativi, mentre, come detto, l'indirizzo della Corte europea era ormai da anni stabile e coerente alla decisione “Viola v. Italia”.

La questione dell'ergastolo ostativo, pur circoscritta alla materia dei permessi premio, approdava successivamente anche al Giudice delle Leggi.

In data 20.11.2018, la Prima Sezione della Corte di Cassazione trasmetteva alla Consulta una questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis O.P. «nella parte in cui esclude che il condannato all'ergastolo per reati commessi con le modalità di cui all'art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare le associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio».

Successivamente, anche il Tribunale di Sorveglianza di Perugia sollevava questione di legittimità dell'art. 4-bis O.P. in relazione ai permessi premio, non limitando le proprie censure ai reati commessi a vantaggio del sodalizio mafioso bensì includendo nell'accertamento tutta la rosa dei reati racchiusi nell'art. 4-bis O.P., dunque anche la partecipazione, perfino con rango apicale, all'associazione mafiosa.

Le due questioni, pervenute alla Consulta, venivano successivamente riunite e discusse all'udienza del 22.10.2019.

All'esame della Consulta giungeva la compatibilità con la Costituzione ed in particolare, con gli artt. 3 e 27, di una normativa che stabilisce preclusioni assolute all'accesso a un beneficio penitenziario, il permesso, la cui natura è considerata del tutto peculiare.

Il permesso premio è, infatti, concepito come un momento trattamentale, fa parte, ossia, del programma di rieducazione del condannato e costituisce un primo momento di verifica esterna dei traguardi raggiunti dalla persona attraverso l'espiazione della pena e in termini di rivisitazione critica dei propri errori e in termini di capacità di essere reintrodotto in società e di responsabilità.

L'impossibilità per il detenuto di accedere a tale opportunità in virtù di un meccanismo di sbarramento normativo poneva problemi in rapporto alla vocazione rieducativa di ogni pena anche in rapporto alla constatazione che, oltre alla collaborazione con la giustizia, sussistono per il ristretto che non abbia più collegamenti con la criminalità organizzata, altri modi per dimostrare in modo fattivo la propria presa di distanza dal malaffare ed il proprio autentico ravvedimento.

La Corte Costituzionale ravvisava la dedotta incostituzionalità pur apportando specifiche e puntuali precisazioni.

Richiamava la sentenza n. 306 del 1993 che, pur dichiarando non fondate le questioni allora sollevate sull’art. 4-bis, comma 1, O.P., in relazione all’art. 27, terzo comma, Cost., «osservò che inibire l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una “rilevante compressione” della finalità rieducativa della pena: “la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di “tipi d’autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» in caso di mancata collaborazione”»[30].

Dice la Corte: «Non è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima. Non è infatti irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria.

Mentre una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – agli specifici e limitati fini della fattispecie in questione – una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.

Ciò sotto tre profili, distinti ma complementari.

In un primo senso, perché all’assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante.

In un secondo senso, perché tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost.

In un terzo senso, perché l’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza.

Dal primo punto di vista, il congegno normativo inserito nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, è espressione di una trasparente opzione di politica investigativa e criminale. In quanto tale, essa immette nel percorso carcerario del condannato – attraverso il decisivo rilievo attribuito alla collaborazione con la giustizia anche dopo la condanna – elementi estranei ai caratteri tipici dell’esecuzione della pena.

La disposizione in esame, infatti, prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario.

Per i condannati per i reati elencati nella disposizione censurata, infatti, è costruita una disciplina speciale (sentenza n. 239 del 2014), ben diversa da quella prevista per la generalità degli altri detenuti.

Essi possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario solo qualora collaborino con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. Se tale collaborazione non assicurino, ai benefici in questione non potranno accedere mai, neppure dopo aver scontato le frazioni di pena richieste quale ordinario presupposto per l’ammissione a ciascun singolo beneficio (previste per il permesso premio dall’art 30-ter, comma 4, ordin. penit.). E se invece collaborino secondo le modalità contemplate dal citato art. 58-ter, a tali benefici potranno accedere senza dover previamente scontare la frazione di pena ordinariamente prevista, in forza della soluzione interpretativa già individuata, sia da questa Corte (sentenze n. 174 del 2018 e n. 504 del 1995), sia dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 3 febbraio 2016, n. 37578 e 12 luglio 2006, n. 30434).

La disciplina in esame, quindi, a seconda della scelta compiuta dal soggetto, aggrava il trattamento carcerario del condannato non collaborante rispetto a quello previsto per i detenuti per reati non ostativi, oppure, al contrario, lo agevola, giacché, in presenza di collaborazione, introduce a favore del detenuto elementi premiali rispetto alla disciplina ordinaria.

Ma, alla stregua dei principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, un conto è l’attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una collaborazione utile ed efficace, ben altro è l’inflizione di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante, presunto iuris et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato e perciò socialmente pericolosa».

[...] La giurisprudenza di questa Corte (in particolare sentenza n. 149 del 2018) ha del resto indicato come criterio costituzionalmente vincolante quello che richiede una valutazione individualizzata e caso per caso nella materia dei benefici penitenziari (in proposito anche sentenza n. 436 del 1999), sottolineando che essa è particolarmente importante al cospetto di presunzioni di maggiore pericolosità legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del 2017). Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti, l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo (sentenza n. 257 del 2006), in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena (sentenza n. 255 del 2006)»[31].

Le ragioni di carattere investigativo e repressivo, prosegue la Corte, «sono di notevolissima importanza e non si sono affatto affievolite in progresso di tempo.

[...] Nella fase di esecuzione della pena», tuttavia, afferma la Corte: «assume invece ruolo centrale il trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere, ed è questa situazione che induce a riconoscere carattere relativo alla presunzione di pericolosità posta a base del divieto di concessione del permesso premio.

[...] Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non può che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti la possibilità di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento dello stesso detenuto, potendosi ipotizzare che l’associazione criminale di originario riferimento, ad esempio, non esista più, perché interamente sgominata o per naturale estinzione»[32].

La Corte Costituzionale, dunque, tiene ben presenti e riafferma come ineludibili, le esigenze di sicurezza del sistema ordinamentale a fronte della pervicacia di fenomeni criminali[33] violenti.

A tutela della sicurezza pubblica richiede, ancora, un regime probatorio che definisce “rafforzato“, da assolvere utilizzando tutte le informazioni degli organi di controllo quali le Procure delle Direzioni Distrettuali Antimafia e le Questure,  un obbligo che «deve altresì estendersi all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali»[34].

Di entrambi tali elementi – esclusione sia dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata che del pericolo di un loro ripristino – grava sullo stesso condannato che richiede il beneficio l’onere di fare specifica allegazione.

In ultima analisi, la Corte Costituzionale, nel dichiarare illegittima la norma di cui all'art. 4-bis O.P. laddove esclude la concessione di permessi a chi non collabora con la giustizia, premette la persistenza di un giudizio di pericolosità qualificata delle persone condannate per i delitti indicati nella norma in discorso ma ne sancisce una possibilità di superamento diversa dalla collaborazione con la giustizia, ferma la necessità di appurare la interruzione dei collegamenti con i sodalizi di origine e la impossibilità di ripristino di essi.

In tal modo la Corte contempera esigenze di prevenzione ed esigenze di rieducazione lasciando al detenuto richiedente la responsabilità del proprio percorso trattamentale e restituendo al Magistrato di Sorveglianza il compito di valutare in concreto, senza definitive preclusioni normative e senza preclusioni assolute, il percorso della persona ristretta.

 

3. Molto ancora c'è da fare. Le preclusioni assolute di cui agli artt. 4-bis e 58-ter O.P. tornano alla Consulta

Con ordinanza n. 18518/2020, depositata il 18.06.2020, la Prima Sezione della Cassazione ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 58 ter della legge n. 354 del 1975, e dell'art. 2 d. l. n. 152 del 1991, convertito, con modificazioni, nella legge n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.

Ad oggi, infatti, si è determinata la situazione patologica per cui il detenuto in ragione di uno dei reati ex art. 4-bis O.P. che abbia ottenuto il permesso, nonostante le strettissime maglie della sentenza della Consulta e, dunque, sia riuscito a dimostrare la assenza di contatti o collegamenti con l’originaria associazione sodale e l’impossibilità del loro ripristino, troverà, comunque, davanti a sé lo sbarramento normativo di cui agli articoli 41-bis e 58-ter O.P. e vedrà incolpevolmente arrestarsi la progressione trattamentale espressione della vocazione costituzionale di ogni pena al reinserimento in società. L’ordinanza della Corte di Cassazione si inserisce in tale contesto e assume a paradigma di indagine tanto i limiti della pronuncia della Consulta quanto la pronuncia Cedu “Viola v. Italia” e il riconoscimento nei meccanismi dell’ergastolo ostativo della violazione dell’art 3 CEDU.

Sarebbero, secondo la Suprema Corte, in conflitto con la Costituzione le norme indicate poiché violerebbero l'uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini davanti alla legge; l'aspirazione alla riabilitazione di qualunque sanzione penale; i vincoli convenzionali del nostro Paese.

Da porre a parametro, la cristallizzazione - e nella pronuncia della Cedu “Viola c. Italia”, e nella pronuncia della Consulta, n. 253 del 2019 - di alcuni principi: la mancata collaborazione con la giustizia non costituisce indice legale della persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata e, quindi, della mancanza del sicuro ravvedimento del condannato; non può sempre essere ricondotta ad una scelta libera e volontaria o, comunque, al fatto che siano mantenuti i legami con il gruppo criminale di appartenenza. Numerosi sono gli elementi che possono fare apprezzare l'acquisizione di progressi trattamentali del condannato all'ergastolo nel suo percorso di reinserimento sociale e occorre valutare che la dissociazione dall'ambiente criminale ben può essere altrimenti desunta. Il detenuto non può essere coartato dalla minaccia di non potere accedere alla speranza di essere reinserito in società attraverso l'obbligo di favorire l'attività investigativa dello Stato. La presunzione assoluta di permanenza dei legami criminali è incompatibile con una caratteristica propria della fase esecutiva, ossia col fatto che il trascorrere del tempo, durante la lunga detenzione, ben può determinare trasformazioni rilevanti sia della personalità del soggetto ristretto che del contesto esterno al carcere.  Le presunzioni di permanenza dei legami criminali non possono, allora, che essere relative, dovendo sempre ammettersi la possibilità di una valutazione in concreto dell’incidenza avuta dal trattamento penitenziario sulla personalità del detenuto, proprio in conformità alle previsioni di cui all’art. 27, co. III, Cost.[35]

La questione sollevata, tuttavia, afferisce esclusivamente ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste.

Restano esclusi dalla censura di incostituzionalità i reati ex art. 416-bis c.p.

L’esclusione, in vero, appare incoerente con il percorso motivazionale dell'ordinanza di rimessione; trova elemento giustificativo nelle premesse argomentative secondo cui il ricorrente avrebbe espiato la parte di pena riferibile al reato associativo e, tuttavia, non convince.

Il ricorrente è detenuto in virtù di un cumulo di pene per i reati di 416-bis c.p; omicidio tentato; detenzione e porto illegale di armi, lesioni personali e rapine aggravate, omicidio aggravato dall’art. 7, l. 203 del 1991.

Le doglianze prospettate ai Supremi Giudici riguardano l’inammissibilità della richiesta di inesigibilità della collaborazione nonché l’inammissibilità della richiesta di liberazione condizionale poiché la pena in espiazione sarebbe relativa al solo reato di omicidio aggravato dall’art. 7 dl. 152 del 1991, delitto incluso nell’art. 4-bis O.P., mentre le pene ulteriori sarebbero già state interamente espiate.

Unicamente sul reato di omicidio aggravato, dunque, afferma di doversi soffermare la Corte di Cassazione.

È noto, tuttavia, l'indirizzo giurisprudenziale dei Giudici di legittimità in materia di inesigibilità della collaborazione con la giustizia in ragione del quale l’impossibilità o inesigibilità deve essere dimostrata per tutti i reati posti in esecuzione ovvero per tutti i reati avvinti dal vincolo della continuazione seppur estromessi dal cumulo o, addirittura, non eseguibili perché, ad esempio, indultati (Cass., Sez. I, sent. 43391/2014).

Insomma, ove la Corte Costituzionale accogliesse la questione prospettata con riferimento ai delitti commessi appannaggio delle associazioni sodali, il ricorrente si troverebbe ancora davanti a una preclusione normativa derivante dalla presenza, nel proprio cumulo di pene, del reato ex art. 416-bis c.p. e di nuovo non vedrebbe valutata la sua richiesta nel merito. La questione, allora, rischia il baratro dell’irrilevanza poiché l’accoglimento di essa non sarebbe idoneo a rimuovere gli ostacoli normativi che non consentono ai Giudici di Sorveglianza di entrare nel merito del percorso trattamentale compiuto dal ristretto al fine di verificare l’eventualità che lo stesso abbia maturato un sicuro ravvedimento nonostante non abbia prestato una collaborazione utile con la giustizia.

Va detto, tuttavia, e formulato quale auspicio, che la Consulta potrebbe superare il difetto di rilevanza accogliendo un principio giurisprudenziale ormai immanente, ispirato al crisma costituzionale del favor rei: «Nel corso dell'esecuzione il cumulo giuridico delle pene irrogate per il  reato continuato  è  scindibile,  ai fini  della  fruizione  dei benefici  penitenziari,   in  ordine   ai  reati  che  di  questi non impediscono  la concessione  e sempre che il condannato abbia espiato la pena relativa ai delitti ostativi»[36] .

 

4. Riflessi potenziali o sperati sul regime detentivo ex art. 41-bis, co. II O.P.

Con decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (cosiddetto Decreto Martelli-Scotti), convertito in legge, 7 agosto 1992, n. 356[37], si introduce nell'ordinamento penitenziario, una norma che consente al Ministro della Giustizia (allora di Grazia e Giustizia) di sospendere, per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, le regole ordinarie di trattamento penitenziario nei confronti dei detenuti facenti parti dell'organizzazione criminale mafiosa. Obiettivo dichiarato della previsione di legge è recidere i contatti tra i sodali, isolarli, renderli inoffensivi.

Il trattamento penitenziario che umanizza il carcere offrendone l’apparenza giustificatrice di strumento di rieducazione e di reinserimento, può essere sospeso in tutto o in parte, nei confronti di detenuti che, in situazioni di vistosa emergenza, destino particolare e motivato allarme per l’incolumità pubblica. La Costituzione è sospesa.

Il cibo e il vestiario sono ridimensionati; così i pacchi che possono essere ricevuti dai familiari; il tempo da trascorrere all’aperto; gli spazi dove svolgere attività fisica – quando esistenti – la possibilità di incontrare altri soggetti detenuti. La corrispondenza in entrata ed in uscita è soggetta a censura e ne conseguono indefinite attese per trasmettere o ricevere la posta.

Tempi indeterminabili si prospettano anche per consensi ed autorizzazioni dal Dap per consultare un medico di propria fiducia. E, infine, la più odiosa delle prescrizioni, quella che impone di vedere i propri familiari per una sola ora al mese. In alternativa, il detenuto potrà telefonare ai propri congiunti, presso altro carcere, per dieci minuti.

Il colloquio avviene “con le modalità stabilite dall’art. 41 bis, comma I quater dell’Ordinamento Penitenziario”, ossia quelle valutate come “idonee ad impedire il passaggio di oggetti” tra la persona detenuta e chi si reca a farle visita, da anni tradotte dall’amministrazione penitenziaria in un vetro divisore, a tutta altezza, un vetro antiproiettile, spesso, con una finestra chiusa a più mandate.

Non più di un’ora al mese. Un’ora da dividere per quanti sono presenti al colloquio. Un po’ per uno al telefono.

Se il detenuto in 41-bis è padre o madre, potrà toccare i suoi bambini minori di dodici anni al raggiungimento dei quali il minore non potrà più abbracciare il genitore recluso.

Dopo 28 anni dall’emergenza, l’essenza giustificatrice del 41-bis è mutata e mortificata. A seguito di due riforme normative e di numerosi rimbrotti da parte della Corte Europea - che ricorda all’Italia il carattere emergenziale della misura afflittiva e la necessità che la stessa non si protragga a carico di un soggetto per tempi illimitati in assenza di specifiche, motivate, ed attuali situazioni di pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblici - il 41-bis è entrato in modo permanente nell’ordinamento penitenziario e, diversamente dalla sua iniziale spinta giustificatrice, è esteso a ben più ampie categorie di detenuti.  Basta la mera partecipazione a un sodalizio, contestata con un’ordinanza di custodia cautelare, perché un soggetto, ancora solo indagato, venga attinto dalla speciale misura restrittiva.

La norma di ordinamento penitenziario non sembra mirare più, ormai, ad impedire il passaggio di comunicazioni vietate e pericolose ma si palesa apertamente come uno strumento di punizione suppletiva e di pressione investigativa.

Le restrizioni, le preclusioni del regime, appaiono spesso del tutto sconnesse da effettive esigenze di sicurezza e palesano una logica di mera afflizione, espressione plastica di una ragion di Stato pallido simulacro dello Stato di Diritto.

Il carcere duro, dunque, viene disancorato da una situazione di emergenza contingente e si giustifica sulla pericolosità ontologica di fenomeni di criminalità associativa. È l'esasperazione del "doppio binario", un sistema parallelo di giustizia che restringe diritti e garanzie di chi è attinto dalle contestazioni di reato di cui all'art. 4-bis O.P., nella fase delle indagini, del processo, dell'esecuzione della pena.

Il decreto ministeriale con cui il regime è applicato, può essere prorogato all'infinito, «purché non risulti che la capacità del detenuto o dell'internato di mantenere contatti con le associazioni criminali, terroristiche o eversive sia venuta meno»[38]. Il provvedimento, che incide e con forza sui diritti fondamentali, è reclamabile al Tribunale di Sorveglianza competente in relazione al luogo di detenzione della persona ristretta.

L'essenza formale giustificatrice del 41-bis è impedire che vengano veicolati all'esterno messaggi o ordini che permettano a chi è recluso di perdurare nel comando e nel controllo della associazione di appartenenza. È recidere il collegamento di chi è al comando di un sodalizio con i suoi adepti, lasciare il gregge senza guida perché si disperda. Il 41-bis è per i boss.

Ai giudici spetta, dunque, verificare in primo luogo i presupposti soggettivi dell'applicazione del regime derogatorio, la qualità, cioè, in capo al soggetto attinto dal decreto, di capo di un organismo criminale contemplato dall'art. 4-bis O.P. Superato positivamente tale segmento di analisi, ai magistrati è richiesto di accertare la sussistenza della potenzialità della persona detenuta di esprimere all'esterno il proprio potere di vertice. Il meccanismo di tutela, tuttavia, si arresta a fronte della ambiguità della dicitura normativa[39] che, nel richiedere il venir meno della capacità del detenuto o dell'internato di mantenere contatti con le associazioni criminali, subordina la cessazione del regime di rigore alla dimostrazione di una circostanza in negativo e si traduce in una pressoché insuperabile probatio diabolica. Da un lato il Ministro della giustizia, suffragato dai pareri delle procure antimafia distrettuali e nazionali, afferma il persistere delle condizioni di pericolosità che legittimano la proroga del decreto, il più delle volte ancorando tale convincimento al ruolo di vertice rivestito dal detenuto prima del suo arresto ed alle vicende giudiziarie in cui è stato coinvolto e in ragione delle quali si trova in carcere. Dall'altro il soggetto che subisce la proroga del decreto, ha l'onere di dimostrare l'interruzione della affectio societatis. Accade così che il regime detentivo di rigore venga ineluttabilmente rinnovato e si traduca nella diuturna sospensione, per le persone detenute, delle normali opportunità trattamentali offerte dal carcere, del progressivo ritorno in società, della tensione alla rieducazione, dell'art. 27 della Costituzione.

La diuturna soggezione di un detenuto al regime detentivo differenziato, rapportata ai recenti arresti giurisprudenziali delle Corti interne e internazionali, integra i trattamenti inumani e degradanti di cui all'art. 3 della CEDU.

Carcerazioni protratte per oltre un ventennio, per un tempo idoneo in astratto ad aspirare alla liberazione condizionale, si svolgono nella “sospensione delle ordinarie attività trattamentali”, con tutti i limiti che la norma di riferimento impone alla libertà, alle opportunità risocializzanti, ai legami con i familiari, allo studio e alla lettura, alla corrispondenza libera e segreta, all'accesso al lavoro, alla possibilità di partecipare a rappresentanze sindacali, in una parola, alla rieducazione o, anche, alla speranza.

È evidente come, dopo vent'anni di soggezione alla detenzione speciale, senza alcun nuovo addebito, senza alcuna nuova indagine, senza che possa essere rilevata nell'alveo familiare del prevenuto alcuna disponibilità sospetta di somme di denaro, fruendo di colloqui sporadici nel tempo, senza che la condotta in carcere sia passibile di alcuna censura, alla persona detenuta si chiede una dimostrazione in negativo del tutto impossibile per cui più intenso e capillare dovrebbe essere lo sforzo del Tribunale di Sorveglianza, nell'esercizio del suo potere - dovere di controllo di legittimità sull'operato della pubblica amministrazione.

I dati fattuali allegati a pretesa dimostrazione di attualità, dunque, dovrebbero essere vagliati specificamente e capillarmente verificati per stabilire se essi possano dirsi pertinenti soggettivamente al reclamante ed allo stesso in qualunque misura addebitabili. Diversamente, si ammette che il 41-bis protragga all'infinito la sua efficacia mentre al detenuto è negata ogni tutela a fronte della allegazione di circostanze avulse dal suo operato e che non può in alcun modo smentire, controllare, contestare.

Il ravvedimento di chi ha trascorso anni di carcerazione ripercorrendo il proprio vissuto in modo autenticamente critico, di chi ha riconosciuto il proprio errore e ne ha fatto occasione struggente di rimorso, quello, non conta nulla. Il regime differenziato si rinnova in modo automatico escludendo dagli indici valutabili l'evoluzione dell'individuo, il suo percorso proficuo di crescita, i suoi sforzi. E la dignità dell’uomo, cui aspira l'intero tessuto costituzionale, viene completamente annichilita perché non si può neppure immaginare un concetto di dignità coerente con lo spegnimento di ogni aspettativa futura, con la preclusione di ogni ideazione o progettualità, nella consapevolezza che la vita di domani è uguale a quella di ieri ed è sottratta al tuo libero arbitrio, governata e scandita dai tuoi custodi.

E proprio di dignità parla la pronuncia della Corte EDU “Viola v. Italia” che ha riconosciuto la violazione da parte dello Stato italiano dell'art. 3 CEDU in materia di ergastolo effettivo.

La Corte EDU ricorda che per il principio della "dignità umana" è impossibile privare una persona della libertà senza al contempo lavorare per il suo reinserimento e senza offrirle la possibilità di recuperare un giorno questa libertà: «Un detenuto condannato all'ergastolo ha il diritto di sapere fin dal principio cosa deve fare per garantire la sua liberazione e quali sono le condizioni" (Vinter, cit., § 122).

[...]Le autorità nazionali devono dare ai prigionieri condannati al carcere a vita una reale possibilità di essere reintegrati (Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria, 15018/11 e 61199/12 nostra, § 264, CEDU 2014 (estratti). Esiste chiaramente un obbligo positivo di mezzi, non di risultato, che implica la necessità di garantire a questi detenuti l'esistenza di regimi penitenziari compatibili con l'obiettivo dell'emenda e che permettano di progredire su questa strada. (Murray, citata sopra, § 104). La Corte ha precedentemente accertato la violazione di tale obbligo, nel caso in cui il regime o le condizioni detentive erano d’ostacolo alla rieducazione dei detenuti»[40].

A livello interno, la Corte di Cassazione ha chiarito come «la previsione di modalità trattamentali differenziate in funzione del circuito penitenziario di assegnazione finisca per incidere significativamente (con conseguente configurazione anche della gravità del pregiudizio) con il diritto del detenuto ad una offerta trattamentale individualizzata, finalizzata al suo reinserimento sociale, in un quadro di interventi conformi al principio di umanizzazione della pena, anche alla stregua del parametro costituzionale dell'art. 27 Cost..»[41] .

Con la medesima pronuncia, la Suprema Corte ha anche specificato come le norme di cui agli artt. 13 e 14 O.P., 32 Reg. Esec., se conferiscono all'amministrazione penitenziaria il potere di differenziare vari circuiti penitenziari in ragione di esigenze di sicurezza, allo stesso tempo, però, configurano ogni regime differenziato quale eccezione rispetto alla regola che dovrebbe essere quella di garantire a tutti i ristretti eguali opportunità risocializzanti.

Da ciò la Suprema Corte ha trae la logica conseguenza che la soggezione a circuiti più restrittivi debba essere mantenuta per tempi limitati e sia, in ogni caso, coerente e proporzionata agli obiettivi per cui è stata stabilita. Ne deriva la necessità di una revisione a cadenze regolari durante la detenzione.

Il detenuto gode, dunque, di un «generale diritto ad un trattamento penitenziario “non differenziato”»[42], un diritto soggettivo in virtù del quale è dato alla persona privata della libertà, di agire con lo strumento del reclamo giurisdizionale ove la prolungata soggezione a un circuito diversificato rischi di tradursi in un pregiudizio stante la sottrazione di una offerta trattamentale individualizzata e finalizzata al reinserimento del condannato.

La Corte Costituzionale ha, peraltro, nel tempo, riaffermato la piena operatività del principio della "non regressione trattamentale incolpevole in ambito penitenziario" (Corte Cost. sent. n. 445 del 1997 e n.137 del 1999 e da ultimo sentenza n. 257 del 2006 e n. 79 del 2007).

Accade assai spesso, però, proprio per i reati di cui all'art. 4-bis O.P. relativi ad associazioni delinquenziali, che un detenuto abbia rescisso ogni legame con la criminalità organizzata e, al di là delle contestazioni di reato tradottesi nelle condanne in esecuzione, non abbia più posto in essere alcuna condotta inalveabile in ambiti criminali e, tuttavia, venga descritto dalle relazioni provenienti dalle Procure competenti, come un 'soggetto pericoloso' in virtù della considerazione quanto mai astratta circa 'l'impossibilità di escludere' suoi collegamenti con contesti deviati.

Ciò si traduce nella menomazione di un diritto soggettivo maturato nel tempo a progredire nel percorso trattamentale in coerenza con gli scopi della pena secondo Costituzione riconosciuti, peraltro, anche da una del tutto inapplicata circolare Dap, la n. 157181 del 2015. La stessa, infatti, raccomanda alle Direzioni degli Istituti di pena, di dare impulso alle procedure di declassificazione per i detenuti che si trovino da lungo tempo nel circuito AS, "soprattutto in costanza di un'adesione a programmi di trattamento avanzati".

Il diniego di declassificazione si traduce, pertanto, in una forzata interruzione della tensione al reinserimento in società, in una vanificazione dell'impegno profuso nel recupero di sé e, in ultima analisi, in una violazione dei canoni convenzionali (e costituzionali) cui è ancorata la sanzione penale.

Per il ristretto in regime derogatorio ex art. 41-bis O.P., l'assenza di strumenti trattamentali comporta l'incapacità di costruire una immagine di sé diversa dal reato che ha commesso e per cui ha fatto ingresso in carcere che possa essere valutata dal magistrato di sorveglianza.

Qualunque agire positivo il detenuto ponga in essere è reso inutile dalla apodittica constatazione che la mafia ancora c'è, esiste.

In sostanza, lo Stato italiano non assolve ai suoi obblighi positivi di offrire, a tutte le persone ristrette, concrete opportunità di reinserimento attraverso il sostegno di interessi culturali, umani e professionali. Al detenuto è precluso conoscere quale condotta adottare, quale via seguire, per essere allocato in un circuito detentivo che gli consenta di accedere al trattamento ed alla rieducazione.

La collaborazione con la giustizia permane quale unica via anche per accedere all'ordinario regime carcerario, dunque, al trattamento penitenziario e alla speranza e ciò in vistosa violazione dei parametri di legittimità della pena, convenzionali, costituzionali.

 

[1] [corsivo nostro]

[2] [corsivo nostro]

[3] Corte cost., Sent. n. 252 del 22.10.2019, in www.cortecostituzionale.it

[4] Giostra, G., e Insolera, G., (a cura di), Lotta alla criminalità organizzata: gli strumenti normativi, Milano, 1995; Martini, A., Commento all’art. 19 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in Leg. pen., 1993, 212.

[5] [corsivo nostro]

[6] Corte cost., Sent. n. 68 del 22.02.1995, in www.cortecostituzionale.it

[7] Corte cost., Sent. n. 357 del 19.07.1994, in www.cortecostituzionale.it

[8] [corsivo nostro]

[9] Corte cost., Sent. n. 264 del 21.11.1974, in www.cortecostituœonale.it

[10] [corsivo nostro]

[11] Corte cost., Sent. n. 204 del 04.07.1974, § 2 (Considerato in diritto), in www.cortecostituzionale.it [corsivo nostro]

[12] Corte cost., Sent. n. 135 del 24.04.2003, § 4 (Considerato in diritto), in www.cortecostituzionale.it [corsivo nostro]

[13] http://www.lifeimprisonment.eu/; Pugiotto, A., Musumeci, C., Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, Napoli, 2016, 65 ss.

[14] Corte cost., Sent. n. 306 dell’11.06.1993, §§ 9 e 13 (Considerato in diritto), in www.cortecostituzionale.it [corsivo nostro]

[15] Ibid., § 11 (Considerato in diritto) [corsivo nostro].

[16] Pugiotto, A., in Gli ergastolani senza Scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell'ergastolo ostativo, cit., 91 ss.

[17] Galliani, D., Ponti, non muri. In attesa di Strasburgo, qualche ulteriore riflessione sull’ergastolo ostativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2018, 1156 ss.

[18] Sul punto, sia consentito rinviare a Brucale, M., L'ergastolo in Europa e il "right to hope". La sentenza "Petrukov v. Ukrain" nel panorama giurisprudenziale della Corte EDU, in Dir. pen. proc., 9/2019, 1309.

[19] Principio, quello riportato, già espresso con la Sent. n. 255 del 21.06.2006, in www.cortecostituzionale.it; in senso conforme, Sent. n. 257 del 21.06.2006, ivi; n. 445 del 16.12.1997, ivi; n. 504 dell’11.12. 1995, ivi.

[20] Corte cost., Sent. n. 149 del 21.06.2018, §§ 5 e 6 (Considerato in diritto), in www.cortecostituzionale.it [corsivo nostro]. In senso conforme, Corte cost., Sent. n. 186 del 17.5.1995 e Sent. n. 276 del 23.5.1990, entrambe in www.cortecostituzionale.it

[21] Corte cost., Sent. n. 149 del 21.06.2018, cit., § 7 (Considerato in diritto) [corsivo nostro].

[22] Galliani, D., e Pugiotto, A., Eppure qualcosa si muove: verso il superamento dell’ostatività ai benefici penitenziari?, in Rivista AIC, n. 4/2017.

[23] Galliani, D., Ponti, non muri. In attesa di Strasburgo, qualche ulteriore riflessione sull’ergastolo ostativo, cit.

[24] Corte cost., Sent. n. 149 del 21.06.2018, cit., § 7 (Considerato in diritto) [corsivo nostro].

[25] Corte EDU, Quinta Sezione, 4 settembre 2014, Trabelsi v. Belgio, in www.echr.coe.int

[26] Corte EDU, Prima Sezione, 13 giugno 2019, Viola v. Italia, § 43, in www.echr.coe.int [corsivo nostro].

[27] Viganò, F., Ergastolo senza speranza di liberazione condizionale e art. 3 Cedu: (poche) luci e (molte) ombre in due recenti sentenze della Corte di Strasburgo, in Dir. pen. cont., 4 luglio 2012.

[28] Corte EDU, Prima Sezione, 13 giugno 2019, Viola v. Italia, cit., § 43 [corsivo nostro].

[29] Corte EDU, Grande Camera, 9 luglio 2013, Vinter v. Regno Unito, § 108, in www.echr.coe.int

[30] Corte cost., Sent. n. 253 del 22.10.2019, in www.cortecostituzionale.it

[31] Ibid., §§ 8, 8.1, 8.2 [corsivo nostro]

[32] Ibid., §§ 8.3 [corsivo nostro]

[33] Volume Amicus Curiae 2019: Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, in Quaderni Costituzionali, Rassegna.

[34] Corte cost., Sent. 253 del 22.10.2019, cit., § 9 (Considerato in diritto) [corsivo nostro]

[35] In merito, sia consentito il rinvio a Brucale, M., Liberazione condizionale agli ergastolani ostativi. L’art. 4 bis torna alla Consulta, in Pen. Dir. e Proc., 19 giugno 2020.

[36] Cass., Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 14, R., in DeJure [corsivo nostro]

[37] Veniva introdotto il comma 2 all'art. 41-bis: «quando ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell'Interno, il Ministro di grazia e giustizia ha, altresì, la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell'art. 4 bis, l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza». I delitti compresi nel novero dell'art. 4-bis O.P., erano quelli commessi avvalendosi delle condizioni di cu i all'art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare le associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti di cui all'art. 416-bis c.p., 630 c.p., 74 d.p.r. 309 del 1990.

[38] Art. 4-bis, co. II-bis, O.P. [corsivo nostro]

[39] Art. 4-bis, co. II-bis, O.P.: «purché non risulti che la capacità del detenuto o dell'internato di mantenere contatti con le associazioni criminali, terroristiche o eversive sia venuta meno».

[40] Corte EDU, Prima Sezione, 13 giugno 2019, Viola v. Italia, cit., § 113 [corsivo nostro].

[41] Cass., Sez. I, 20 aprile 2018, n. 16911, Fabiano, § 3.3 (Considerato in diritto), in www.italgiure.giustizia.it [corsivo nostro]

[42] Ibid., § 3.2. (Considerato in diritto)

Giostra, G., e Insolera, G., (a cura di), Lotta alla criminalità organizzata: gli strumenti normativi, Milano, 1995; Martini, A., Commento all’art. 19 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in Leg. pen., 1993

Pugiotto, A., Musumeci, C., Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, Napoli, 2016.

Galliani, D., Ponti, non muri. In attesa di Strasburgo, qualche ulteriore riflessione sull’ergastolo ostativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2018

Brucale, M., L'ergastolo in Europa e il "right to hope". La sentenza "Petrukov v. Ukrain" nel panorama giurisprudenziale della Corte EDU, in Dir. pen. proc., 9/2019

Galliani, D., e Pugiotto, A., Eppure qualcosa si muove: verso il superamento dell’ostatività ai benefici penitenziari?, in Rivista AIC, n. 4/2017.

Viganò, F., Ergastolo senza speranza di liberazione condizionale e art. 3 Cedu: (poche) luci e (molte) ombre in due recenti sentenze della Corte di Strasburgo, in Dir. pen. cont., 4 luglio 2012.

Volume Amicus Curiae 2019: Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, in Quaderni Costituzionali, Rassegna.

Brucale, M., Liberazione condizionale agli ergastolani ostativi. L’art. 4 bis torna alla Consulta, in Pen. Dir. e Proc., 19 giugno 2020.