Mover. Odissea contemporanea

di Michele Silenzi
Mover. Odissea contemporanea di Michele Silenzi
Mover. Odissea contemporanea di Michele Silenzi

Uscendo dal solco della tradizione, qualche anno fa Liberilibri ha scommesso sulla narrativa contemporanea pubblicando, per la prima volta, l’opera d’esordio di un giovane autore italiano: Michele Silenzi.

Mover analizza e descrive il disequilibrio come fonte di vita e di azione. Una voce dissonante in una contemporaneità che sempre più compulsivamente va alla disperata ricerca di un equilibrio passivo e di un egalitarismo mortifero.

Il fil rouge che tiene insieme il libro è il concetto di distruzione e ricreazione, di dissoluzione e riaggregazione rappresentati nella nostra quotidianità. L’altro protagonista è il Tempo, sempre presente con il suo ritmo incalzante, un tempo non circolare, ma che si lancia in avanti, facendo piazza pulita di quanti non riescono a reggere il suo passo e creando in tal modo le condizioni perché altri riescano ad emergere.

Economia, politica, religione, welfare, ambiente, giovani, donne, amicizia, lavoro, vita, morte: dal flusso dei liberi pensieri di un giovane libero pensatore esce la dichiarazione ufficiale di guerra al politicamente corretto.

L’Ulisse del Ventunesimo secolo, che è “a casa nel mutamento” e vuole “vivere selvaggiamente questo tempo presente”, viaggia attraverso le proprie esperienze di vita raccontando se stesso e un’intera generazione. Il ritmo sintattico è incalzante, la scrittura procede per paratassi e si affida a periodi brevi per spingere il lettore lungo un circuito narrativo che, dopo l’ultima pagina, potrebbe ricominciare daccapo.

Ecco un significativo estratto:

Sono il video del ragazzo di Sydney che sta facendo surf. Sono il programma inventato da un nerd di Guangzhou smanettando sul suo computer. Sono la variazione di mercato creata dal giovane brasiliano che lavora nel centro finanziario di San Paolo.

Invecchiamo rapidamente. Sempre più rapidamente.

Corriamo a tutta velocità verso una pace arteriosclerotica. Tutti invecchiano. Presto saremo tutti vecchi. E tutti vor­remo essere sempre più assistiti. Le nostre speranze, insieme ai nostri soldi, finiranno nel finanziamento di cateteri e bombole di ossigeno. Affogati nel respiro spezzato di un enfisema polmonare globale. Non voglio essere l’uomo assistito. Finché i miei muscoli si flettono, il mio cuore pulsa, le sinapsi del mio cervello funzionano, io sono l’uomo. Sono la vita.

Le cifre sugli schermi del computer indicano tempesta. Nessuna possibilità di previsione, posso soltanto osservare. E allora guardo. Vivo nell’ambiente migliore mai comparso nel cosmo conosciuto. I progressi nella qualità di vita, nelle possibilità offerte, nel miglioramento delle condizioni di chi sta peggio sono infinitamente superiori a quelli di qualsiasi altra epoca. La vita si allunga, i poveri diminuiscono, la ricchezza globale aumenta. […]

Tutti i diritti che voglio si riassumono in uno solo: poter andarmene all’inferno nel modo in cui preferisco. E invece i diritti sono diventati una rete fitta in cui è difficile districarsi.

Se per sbaglio tocco un filo, le assordanti sirene moraliste si attivano. In un attimo mi accusano di essere omofobo, razzista, sessista, darwinista, generalmente di­scriminatorio. Più rispetto i cosiddetti diversi più mi sem­bra di maltrattarli.

Più sto attento al modo in cui parlo e agisco più mi sembra di essere uno scellerato. Siamo tutti gay, zoppi, mutilati, paraplegici, neri, bianchi, lesbiche, transgender, palestinesi. Tutti tutto. No, io no. La mania del diritto tende all’egalitarismo, al livellamento di ogni differenza.

Io non sono lo Stato in cui vivo. Io sono io, poi sono la mia famiglia, i miei amici, le persone che amo, le mie cose, le persone che incontro, quello che vedo, i pensieri che formulo, i posti dove vivo, i lavori che faccio. Sono tutto ciò che mi contamina nel mondo e nel posto che scelgo di chiamare casa. L’orizzonte dello Stato inteso come nazione perde di significato. Contano le comunità cui scelgo di appartenere, i gruppi organizzati attorno a un interesse o a uno scopo. I passaggi intermedi diventano insensati.

Io sono il mio futuro. Sono le mie speranze e i miei sogni.

Ma lo Stato viene a cercarmi, mi chiede infinitamente di più di quello che mi dà. È un padrone arrogante. Vuole rispetto per principio, non cerca di guadagnarlo, pensa di averlo per nascita. Se chiedo di essere lasciato in pace, di fare da solo, mi dice di no. Bisogna fare a modo suo. Vuole essere la mia casa, ma per me è solo un grande stanzone con le luci al neon, squallido, privo di gusto e pieno di sconosciuti. Lo Stato è solo una maschera in cui ci fanno credere che dobbiamo rispecchiarci.

Lo Stato non so neanche più cosa sia. Rappresenta solo se stesso. Rappresenta solo i suoi rappresentanti. Eppure sta lì e continua a creare leggi. Anzi, più si indebolisce più crea cavilli. A scuola avevo un insegnante che non riusciva mai a tenere una classe in ordine. Più urlava più il nostro disordine aumentava. Lo Stato fa la stessa cosa. Cerca di creare un ordine che non può derivare da lui. E più ci prova più il disordine aumenta. Quando di fronte ai tuoi alunni hai perso legittimità e autorità non c’è più nulla da fare per riguadagnare il rispetto. Puoi solo andartene.

Non posso rispettare ciò che non ha ragione di esistere nella forma attuale. Non posso rispettare una cosa perché mi è stato insegnato che è giusto farlo. Non posso rispet­tare una qualsiasi cosa perché di solito si fa così.

Il rispetto è come l’amore, bisogna rinnovarlo ogni giorno. Ricor­darsi perché lo si fa. Comprenderne il valore e continuare ad accettarlo. Altrimenti diventa come le invocazioni nelle celebrazioni cattoliche, forme ripetute che non dicono più nulla della Parola di Dio.

Adesso so che lo Stato non ha più valore.

Michele Silenzi, Mover. Odissea contemporanea, collana Narrativa, pagg. 208, euro 12.00, ISBN 978-88-98094-14-1