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Procreazione medicalmente assistita: la madre intenzionale, note a margine

Scorcio
Ph. Niccolò Gurioli / Scorcio

Il giorno 9 marzo 2021 è stata depositata la Sentenza n. 32/2021 della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 8 e 9 della Legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) e 250 Codice civile, sollevate – in riferimento agli articoli 2, 3, 30 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli articoli 2, 3, 4, 5, 7, 8 e 9 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con Legge 27 maggio 1991, n. 176, e agli articoli 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con Legge 4 agosto 1955, n. 848 – dal Tribunale ordinario di Padova con l'ordinanza del 9 dicembre 2019.

Di che cosa si tratta? Il Tribunale di Padova era stato adito «dalla madre intenzionale di due gemelle, nate a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), alla quale l'allora partner della stessa si era sottoposta». L'istanza presentata al Tribunale tendeva principalmente a ottenere l'autorizzazione a dichiarare allo stato civile di essere genitore ai sensi dell'articolo 8 della Legge n. 40/2004 o di essere dichiarata tale dalla sentenza del Tribunale adito. Ciò sulla base e ai sensi dell'articolo 6 della citata Legge n. 40/2004. Non solo. In via due volte subordinata la ricorrente chiese al Tribunale di Padova «di essere autorizzata a riconoscere davanti all'ufficiale di stato civile le minori quali proprie figlie» e di essere disposta, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 250 CC, ad accettare tale riconoscimento in seguito a «sentenza che tenga luogo del consenso da lei stessa prestato e rifiutato dalla madre che ne dichiarò la nascita e che le riconobbe». La seconda richiesta subordinata era volta ad ottenere un'ordinanza del Tribunale adito che prescrivesse «all'ufficiale dello stato civile la rettificazione degli atti di nascita delle minori» dai quali risultasse che le stesse erano nate a seguito di fecondazione eterologa, «sulla base del consenso prestato dalla madre biologica e dalla ricorrente, madre intenzionale».

Il fatto presenta aspetti di singolarità: la madre biologica e la cosiddetta madre intenzionale non hanno avuto una comune residenza anagrafica pur avendo convissuto anche dopo la nascita delle bambine per quasi cinque anni. La cosiddetta madre intenzionale, essendo cessata la sua relazione con la madre  biologica, si è visto preclusa la strada per l'adozione e l'affidamento, non avendo ottenuto l'assenso del genitore legale dell'adottando come prescritto dalla Legge 4 maggio 1983, n. 184.

Non intendiamo commentare la Sentenza n. 32/2021 della Corte costituzionale. Ci limiteremo a qualche osservazione e a taluni rilievi. Essa presenta aspetti significativi innanzitutto per la dichiarazione di inammissibilità circa le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice a quo. È vero che l'inammissibilità è stata dichiarata sulla base di valutazioni «tecniche», vale a dire interpretando e applicando la normativa positiva. È altresì vero che la Corte costituzionale ha considerato la questione in un orizzonte più largo di quello propriamente costituzionale. Il che l'ha impegnata in un lavoro di costruzione sistematica che va «oltre» (anche se non «contro») la Costituzione. Ciò meriterebbe, a parer nostro, un approfondimento e un'attenta considerazione, poiché – così facendo – si «allarga» il concetto di Costituzione, che verrebbe a identificarsi con il «sistema» giuridico, sollevando un'ulteriore questione: quali sono le norme autenticamente ed essenzialmente costituzionali sovraordinate alle norme ordinarie? Facendo dell’intero «sistema» il punto di riferimento non si rischia di rendere elastica e, perciò, in ultima analisi incerta la perimetrazione costituzionale?

Non ci proponiamo – come detto - un commento vero e proprio alla Sentenza n. 32/2021 della Corte costituzionale. Ci proponiamo, piuttosto, di rilevare e sottolineare come linguaggio e definizioni usate e adottate negli atti, cui la Sentenza n. 32/2021 della Corte costituzionale si riferisce, sono lontani dal senso comune e dal sostanziale «realismo» della codificazione ottocentesca e novecentesca.

Ammettere che con la fecondazione eterologa e/o facendo ricorso all'utero in affitto due esseri umani dello stesso sesso possano considerarsi «genitori» rappresenta già un'assurdità. Definire, però, «madre intenzionale» una donna che convive con un'altra donna, la quale, avendo fatto ricorso alla fecondazione artificiale, è diventata madre biologica, è un controsenso. Tutti, infatti, possono intenzionalmente desiderare di essere quello che non sono. Ciò, però, non li rende quelli che essi desiderano essere. Un uomo può intenzionalmente considerarsi donna o cavallo. Egli, però, non diventerà mai quello che intenzionalmente vorrebbe essere ma non è. Invocare, poi, il riconoscimento giuridico del proprio desiderio e del proprio sogno, di qualsiasi desiderio e di qualsiasi sogno, è due volte assurdo. È offensiva dell'intelligenza questa pretesa. Essa rivendica, infatti, il potere di trasformare per mezzo della legge (umano-positiva) o con la giurisprudenza – era questa la vecchia pretesa del Portalis – la irrealtà in realtà, il nichilismo in metafisica, il diritto, inteso classicamente (cioè come determinazione di ciò che è giusto), in imposizione arbitraria di regole convenzionalmente stabilite e, soprattutto, significa attribuire al legislatore la facoltà di dar vita a istituti «innaturali» .

La Sentenza n. 32/2021 parla di «vuoto legislativo» ed invita il Parlamento a regolamentare la materia nella quale rientrano casi come quello all'esame del Tribunale ordinario di Padova. La Corte costituzionale manifesta con questa richiesta una necessità propria del giuspositivismo assoluto che contrasta, fra l’altro, con quanto positivamente stabilito dalle Preleggi premesse al Codice civile del 1942 in quanto pone, in ultima analisi, nel nulla sia l’analogia legis sia, soprattutto, l’analogia iuris (sia, questa, circoscritta entro i limiti dei principî generali dell’ordinamento giuridico dello Stato – come recita l’attuale articolo 12 delle Disposizioni sulla legge in generale premesse al Codice civile -, sia essa dipendente dai principî generali del diritto come prescriveva l’articolo 3, c. II, delle Disposizioni sulla pubblicazione, interpretazione ed applicazione delle leggi in generale premesse al Codice civile del Regno d’Italia del 1865). Si potrebbe dire che la Corte costituzionale formula così un invito che risponde alla dottrina kelseniana della Costituzione e, più in generale, del diritto. A nostro avviso, però, non considera che essa stessa è andata spesso «oltre» la dottrina kelseniana nell’interpretazione e nell’applicazione della Costituzione. Ciò è avvenuto in tempi relativamente recenti allorché le norme costituzionali sono state «lette» - seguendo le teorie ermeneutiche – non come disposizioni ma come materiale per costruire le disposizioni. Ciò è avvenuto, però, anche in anni ormai lontani: negli anni '60 del secolo scorso quando essa ha interpretato la Costituzione secondo la dottrina schmittiana. Significativa, a questo proposito, è la sua Sentenza n. 126/1968, con la quale innovò, rectius cassò, la sua precedente Sentenza n. 64/1961, entrambe relative alla legittimità costituzionale dell'articolo 559 CP. L'adulterio con la Sentenza n. 126/1968 (e con la successiva Sentenza n. 147/1969, coerente estensione di quanto stabilito con la Sentenza n. 126/1968) è stato considerato non punibile perché la società –  disse allora la Corte costituzionale – era cambiata nei costumi e nella mentalità.

Il che significa che sarebbe la società regola per la Costituzione, non la Costituzione regola della società.

Il caso considerato, sia pure esclusivamente sotto il profilo della legittimità costituzionale, con la Sentenza n. 32/2021 pone lo stesso problema, sia pure con qualche profilo di novità. La prima novità è data dal fatto che le norme ordinarie sono cambiate, anche per effetto della Costituzione, rispetto agli anni ‘60. La seconda novità è rappresentata dal cambiamento sociale che rileverebbe (metodologicamente) nel senso sostenuto da Carl Schmitt: esso, infatti, presenta una sostanziale evoluzione nel senso della dottrina politica radicale, oggi particolarmente diffusa e sostanzialmente condivisa anche da chi ritiene di non essere radicale. La terza novità è data dalla vigenza di norme e convenzioni europee ed internazionali che esercitano un'influenza sull'ordinamento giuridico statuale e, talvolta, rappresentano un criterio per la sua interpretazione e per il giudizio di legittimità delle sue norme (il «caso Englaro», per esempio, è emblematico per questa considerazione). La quarta novità è l'indicazione, offerta dalla stessa Corte costituzionale, di regolamentare l'effettività. L'effettività è sì regolamentabile ma solamente alla condizione che la giustizia non dipenda da opinioni o dal potere. La giustizia, infatti, è regola degli atti umani. Non è da questi condizionata. Invocare una regolamentazione retroattiva dell'effettività significa fare appello all'impossibile: la legge, infatti, necessariamente dispone per il futuro, mai può essere metro dell'accaduto. Può essere, infatti, solo criterio per giudicarlo, non per regolamentarlo. La legge retroattiva non è propriamente legge. Lo notarono anche giuristi di indirizzo molto diverso rispetto al nostro. Gustavo Zagrebelsky, per esempio, a questo proposito osservò giustamente che la legge retroattiva non è prescrizione «astratta» ma decisione/imposizione «concreta» (cfr. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1992, p. 33). La legge è certamente chiamata a regolamentare le novità sociali. Essa, però, può e deve regolamentarle in conformità al diritto, non contro il diritto. Il che significa che non tutto è regolamentabile. Parte delle novità sociali sono, infatti, da punire (il che – è vero – rappresenta una forma di regolamentazione al negativo, cioè in senso contrario a quanto richiesto dalla Sentenza della Corte costituzionale n. 32/2021); parte non hanno rilevanza giuridica.

Sostenere, pertanto, che è indifferibile una legge per garantire ai nati da fecondazione eterologa i diritti al mantenimento, all’educazione, all’istruzione, alle cure, alla stabilità dei rapporti affettivi è pleonastico. Tutto ciò, infatti, è dovuto ai figli sulla base sia delle obbligazioni naturali sia sulla base dell’ordinamento giuridico vigente. Per quel che attiene, poi, alla «stabilità dei rapporti affettivi» – diritto soprattutto dei minori e dovere dei genitori – la Corte costituzionale avrebbe dovuto considerare che il divorzio è una causa di violazione di questo diritto. Essa, invece, si è pronunciata per la legittimità costituzionale della Legge 1 dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni. Nel caso de quo, però, va notato che il problema non si pone con riferimento alle minori ma per la cosiddetta «madre intenzionale». L’istanza presentata al Tribunale di Padova, infatti, tendeva al riconoscimento di un (presunto) diritto di questa, non alla tutela dei diritti delle minori. Inoltre, va osservato che la garanzia dei diritti dei minori avrebbe richiesto scelte e condotte che mettessero questi in una situazione «normale» soprattutto dal punto di vista dell’ordine naturale delle «cose», cioè che essi avessero una madre ed un padre. L’inerzia del legislatore, pertanto, andrebbe rilevata per aver esso omesso di regolamentare concepimento e filiazione secondo criteri rispettosi della natura e necessari ai più deboli sotto ogni profilo, innanzitutto sotto il profilo psicologico.

La Sentenza n. 32/2021 della Corte costituzionale adotta innanzitutto l’eguaglianza illuministica, cioè quella eguaglianza che è prodotto dell’ideologia che – come scrisse un autore francese nel secolo scorso – si proponeva di schiarire la luce del sole con quella delle candele. C’è molto di più in realtà, poiché – come si è scritto a commento della stessa Sentenza n. 32/2021 - servirebbe un riconoscimento più forte rispetto a quello illuministico (accolto anche dalla Costituzione italiana), in quanto andrebbe riconosciuto il diritto dei minori ad avere due genitori a pieno titolo. La Sentenza n. 32/2021 ignora (volutamente), però, che i due genitori a pieno titolo cui i bambini avrebbero diritto, sono quelli naturali, non quelli formalisticamente definiti tali e che tali non possono essere per natura. Tanto meno se i genitori sono meramente intenzionali, cioè tali solamente perché hanno condiviso con altre persone l’opportunità o la loro effettiva scelta procreativa. La «genitorialità sociale» non esiste. Essa è definizione arbitraria, assolutamente priva di fondamento naturale.

L’eguaglianza, comunque, non è questione verbale. Essa postula il costante riferimento alla realtà. Spesso al fine di riconoscerla è necessario considerare le differenze. L’eguaglianza è problema di equità, non questione geometrica.

Tanto che la legge, per essere effettivamente uguale per tutti, richiede il previo riconoscimento delle differenze.

Non solamente sul piano penale (aggravanti e attenuati del reato con riferimento al singolo imputato), ma anche sul piano civile: la prestazione, per esempio, di un professionista, pur essendo la stessa sotto il profilo formale, non è sempre la stessa sotto il profilo sostanziale. Il medico, per esempio, è medico (aspetto formale), ma la sua prestazione varia a seconda della sua preparazione, della sua competenza, della sua capacità di diagnosi e di cura. Perciò anche il compenso a lui dovuto varia a seconda di elementi che non sono dati dai soli aspetti formali (laurea e abilitazione all’esercizio della professione). La tesi, quindi, secondo la quale si sarebbe uguali nei diritti e nei doveri richiede un approfondimento: nessuno può dare più di quanto è capace. I diritti, pertanto, non sono assolutamente uguali se si prescinde dal diritto alla dignità (uguale per tutti). Per riconoscere l’eguaglianza dei diritti in senso illuministico sarebbe necessaria la produzione degli esseri umani in serie. Sarebbe necessaria l’eguaglianza delle capacità intellettuali, della volontà, della salute, persino l’uguaglianza delle caratteristiche personali (forza, statura, ingegno e via dicendo).

L’eguaglianza illuministica fra diseguali non è uguaglianza.

Lo osservò già Aristotele.

La Sentenza n. 32/2021 della Corte costituzionale sembra accontentarsi, a questo proposito, dei numeri: due genitori, definiti tali, sono due genitori. Non importa se essi non possono essere genitori (tanto che anche nel caso de quo una delle due persone è stata fecondata facendo ricorso alla fecondazione eterologa). L’importante è affermare un cosiddetto principio (ideologico) secondo il quale i genitori devono essere due (ricorso all’ordine naturale delle «cose») anche se sono dello stesso sesso (violenza all’ordine naturale delle «cose»). Che, poi, i due genitori, considerati tali sulla base di una definizione legislativa arbitraria, non possano assolvere ai compiti e ai doveri di due genitori effettivamente naturali, poco importa: l’importante è l’affermazione di un progetto umano anche se empio (secondo la definizione di empietà del Rosmini, per esempio).

Si è detto, ancora, che le due donne coinvolte nel caso de quo hanno deciso insieme di diventare madri con la fecondazione eterologa di una di loro, fatta all’estero. Ciò sarebbe condizione necessaria e sufficiente per renderle entrambe madri. L’affermazione è francamente insostenibile. Una cosa, infatti, è dare un parere, offrire consigli per una decisione individuale, sostenere una persona nella sua determinazione. Ciò non può costituire motivo per sostenere che anche la persona che consiglia sia madre al pari della persona che concepisce e porta a termine la gravidanza. Sembra che ci sia una differenza essenziale fra le due persone: la condivisione del «progetto»  non ha il potere di trasformare né la natura delle «cose» né la natura degli atti. Decisioni come queste sono sempre personali. Ognuno «risponde», quindi, della propria decisione (anche se può fare la propria scelta sulla base di consigli, suggerimenti, incoraggiamenti di altri). Pertanto, pur avendo le due persone valutato la questione «insieme», nulla cambia circa responsabilità e obbligazioni dell’atto umano personale. Nulla cambia circa l’essere o non essere madre (biologica e/o giuridica), il cui status non dipende assolutamente dalle intenzioni individuali. La definizione di «madre intenzionale», pertanto, è vuota retorica. Non ha né fondamento ontologico né fondamento giuridico. Essa non fa sorgere alcuna obbligazione giuridica (al massimo può avere rilievo morale): la responsabilità, infatti, è personale non solamente per i reati ma anche per le conseguenze di scelte operate e di situazioni create. Anche opzioni irrazionali sono fonte di responsabilità. La «cosa» è evidente, per quanto riguarda il caso de quo, per le obbligazioni nate in seguito al concepimento e al parto della madre biologica (anche se il D. P. R. n. 396/2000 le avrebbe assurdamente consentito una totale liberazione ad nutum).

Si è scritto, inoltre, a commento della Sentenza n. 32/2021 della Corte costituzionale che la Corte medesima chiede «alla politica di riconoscere la “genitorialità sociale” anche quando non coincide con quella biologica, poiché i legami biologici non sono un requisito imprescindibile della famiglia». A questo proposito devono essere fatte almeno due osservazioni. Per quel che riguarda la prima si deve osservare che i legami biologici non rappresentano requisito imprescindibile della famiglia: i figli adottivi ne sono dimostrazione. Ciò è vero. È altrettanto vero, però, – è la seconda osservazione – che, nella generalità dei casi, essi - i requisiti biologici – ne rappresentano il presupposto. I figli legittimi e naturali – ora, contrariamente a quanto insega san Paolo (Lettera ai Galati, 4, 30), dopo la Legge n. 129/2012, tutti legittimi – hanno un legame biologico dal quale non si può prescindere. La Sentenza n. 32/2021 della Corte costituzionale «spinge» – si dice – per il generale riconoscimento dei figli «nati a seguito di procreazione medicalmente assistita eterologa» da donna di «orientamento sessuale» che il senso comune considera non normale. È vero che i loro figli vengono a trovarsi in una situazione particolare. Questa situazione, tuttavia, non è superabile ovvero non è sanabile con il ricorso al riconoscimento del cosiddetto secondo genitore dello stesso sesso della madre biologica. Questo riconoscimento, anzi, ne aggraverebbe la situazione. Del resto va osservato anche a questo proposito che la responsabilità verso i figli va cercata a monte (deriva dalla scelta della madre biologica). Non può essere sanata a valle con riconoscimenti che renderebbero la situazione ancora più particolare e ancora più lesiva degli interessi dei minori che con il riconoscimento si dice di voler tutelare. Notiamo, però, che anche il formalistico riconoscimento (eventuale) del secondo genitore (nel linguaggio imposto alla burocrazia da parte della normativa europea è già entrato l’uso della denominazione di genitore 1 e di genitore 2, anziché di padre e di madre) non rileva e non offre appigli per rivendicare il titolo e lo stato di «madre intenzionale», che è e resta un’assurdità.

Un’ulteriore (e, per ora, ultima) osservazione. Si è sottolineato che la Corte costituzionale ha demandato al legislatore l’individuazione di «un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità umana». Per la Corte costituzionale, cioè, esisterebbe una questione riguardante conflitti di diritti e la conseguente necessità di un loro bilanciamento. Se considerato – da anni, però, (a partire dalla cosiddetta riforma del diritto di famiglia, attuata con la Legge 19 maggio 1975, n. 151) non viene considerato – il problema del bilanciamento fra diritti individuali e diritti sociali, di cui la famiglia è titolare, esiste. La Corte costituzionale, però, non considera la questione sotto questo profilo. Essa sembra aver fatto propria una sola prospettiva secondo la quale i conflitti, come nel caso de quo, sorgerebbero fra le sole persone. Il loro bilanciamento starebbe nel e sarebbe risolto con il riconoscimento della «genitorialità sociale». Si può bilanciare tutto. Spesso, però, il bilanciamento rappresenta una violazione dei diritti e una inuria alla giustizia. A noi sembra che questo caso si presenti anche con i figli concepiti e nati in assenza del matrimonio e usando tecniche innaturali per il loro concepimento.