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L’autosufficienza e il potere senza limiti della Cassazione

Vasto 2017
Ph. Alessandro Saggio / Vasto 2017

L’autosufficienza e il potere senza limiti della Cassazione

L’esito di inammissibilità e le sue ragioni nel giudizio penale di legittimità, un trend in costante crescita determinato da barriere impalpabili: obblighi di specificità ovvero l’aspecificità, l’autosufficienza, la manifesta infondatezza e l’infondatezza ai limiti dell’inammissibilità.

Tra gli avvocati penalisti è diffusa la convinzione che l’esito del ricorso per cassazione dipenda, attualmente, da variabili ignote al momento della sua preparazione e della sua presentazione”

Emanuele Fragrasso in Archivio Penale 2019 n. 2.

 

La citazione racchiude in maniera esemplare la costernazione del difensore e del ricorrente di fronte ai gradini del Palazzaccio, luogo che ultimamente dispensa incertezza e lede il diritto alla prevedibilità della decisione.

In nome del popolo italiano …” in queste poche parole è racchiuso lo scopo del processo e la stessa funzione dei giudici chiamati a rispondere alla domanda di giustizia dei cittadini.

Per dirla con parole più autorevoli: “Lo scopo del processo è la sentenza ossia un atto che fa parte del processo, ed è la risposta di una società fondata sul diritto alla domanda di giustizia di un suo singolo membro”. Salvatore Satta, Il mistero del processo, Milano, Adelphi, 1994.

Questo scopo primario del processo viene spesso eluso dai giudici della Suprema Corte che nel corso degli anni hanno creato degli “oneri dimostrativi” a carico dei ricorrenti che impediscono all’impugnazione di raggiungere la soglia oltre la quale è reso possibile alla stessa di produrre in ipotesi un risultato favorevole.

La creazione di queste barriere, spesso impalpabili, è attribuibile esclusivamente non alla volontà del legislatore ma a quella del giudice. Pensiamo agli obblighi di specificità ovvero l’aspecificità, l’autosufficienza, la manifesta infondatezza e l’infondatezza ai limiti dell’inammissibilità.

Scriveva Blaise Pascal: “chi parla molto dice poco”, nella realtà odierna, dietro alle formule tautologiche e alle volte impalpabili della Suprema Corte, si nasconde il fallimento del compito del giudice di legittimità. Fallimento che si sostanzia con l’allontanamento dall’essere umano che gli chiede chiarezza e certezze da non riuscire più a comprenderlo.


I numeri della Cassazione

L’esame dell’annuario statistico della Cassazione penale per l’anno 2020 ci permette di rilevare che negli anni compresi tra il 2010 e il 2019 la percentuale di ricorsi cui è seguita una decisione di annullamento con o senza rinvio ha avuto come picco minimo il 17,1% del 2011 e come picco massimo il 22,5% del 2013.

Nel 2020 la stessa percentuale è stata del 17,2%, attestandosi pertanto sui valori minimi del decennio precedente.

Un fenomeno opposto è avvenuto riguardo all’inammissibilità. Tra il 2010 e il 2019 la percentuale di ricorsi definiti con decisione di inammissibilità è oscillata tra il 61% del 2013 e il 70,1% del 2018. Nel 2020 la stessa percentuale è stata del 71,6%, cioè un punto e mezzo sopra il picco massimo del decennio precedente.

Nell’anno dell’emergenza pandemica e delle difficoltà che ne sono derivate all’organizzazione del lavoro della Suprema Corte sono dunque diminuite le sopravvenienze e le definizioni ed aumentati l’arretrato e le inammissibilità. Si constata inoltre una diversa distribuzione delle decisioni di inammissibilità nelle quali sono sempre più coinvolte le sezioni ordinarie.

E ancora, la scure dell’inammissibilità si abbatte sette volte su dieci sui ricorsi delle parti private e tre volte su dieci su quelli del pubblico ministero.

Infine, la percentuale delle decisioni di inammissibilità, già alta se calcolata sull’insieme dei ricorsi, lo diventa ancora di più fino a sfiorare l’80% se calcolata soltanto sui ricorsi ordinari.

Le cause dell’aumento delle decisioni di inammissibilità della Cassazione

I dati riportati nel precedente paragrafo sono eloquenti e testimoniano che tra le varie risposte possibili ad un ricorso presentato al giudice penale di legittimità l’inammissibilità soverchia tutte le altre. Gli effetti di tale situazione sono deleteri da qualunque visuale si voglia osservarli.

Lo sono per i ricorrenti cui vengono negati non solo il risultato sperato ma ancor prima la risposta alle domande poste al giudice che, per posizione funzionale, è (o dovrebbe essere) il detentore delle migliori soluzioni giuridiche. Lo sono per i difensori delle parti private che faticano sempre di più a definire le coordinate cui fare riferimento negli atti di impugnazione e gli oneri dimostrativi dei quali devono farsi carico. Lo sono per quello stesso giudice il cui tempo/lavoro è drasticamente assottigliato dalla necessità di evadere una miriade di ricorsi che non produrranno alcun effetto concreto e lo distoglieranno dagli altri nei quali il confronto con le tesi dei ricorrenti è invece possibile e in ipotesi capace di dar vita al costante affinamento interpretativo che è lo specifico della giurisdizione di legittimità.

È allora importante provare a comprendere perché l’inammissibilità abbia questo spazio inusitato.

Si ritiene essenziale a questo fine distinguere con nettezza l’assetto normativo da cui discendono le cause di inammissibilità positivamente previste e le addizioni interpretative apportate dalla giurisprudenza.

È questo l’unico modo per capire quali tra quelle cause siano pacificamente ed esclusivamente riconducibili alla volontà del legislatore e quali invece siano il frutto di un’aggiunta di senso attribuibile all’interprete.

Compiuta questa distinzione, occorrerà ancora capire se le addizioni di cui si parla derivino da una piana applicazione dei criteri indicati dall’art. 12 delle Preleggi al Codice civile o siano piuttosto assimilabili al fenomeno della cosiddetta giurisprudenza “creativa” e se, in questo secondo caso, sia plausibile oppure no qualificarla ulteriormente come “difensiva”.

La disciplina normativa

Il codice di rito elenca varie situazioni alla cui ricorrenza segue la declaratoria di inammissibilità delle impugnazioni in generale.

Questa sanzione è riservata (art. 591 c.p.p.) alle impugnazioni proposte da soggetti non legittimati o privi di interesse o riferite a provvedimenti non impugnabili o inosservanti delle disposizioni prescritte riguardo alla forma (art. 581 c.p.p.), alle modalità di presentazione (art. 582 c.p.p.), alla spedizione dell’atto (art. 583 c.p.p.), ai termini (art. 585 c.p.p.) e alle ordinanze dibattimentali (art. 586 c.p.p.) o oggetto di rinuncia.

Come ben sintetizzato da Emanuele Fragrasso in Diritto al controllo di legittimità e inammissibilità dei ricorsi per manifesta infondatezza dei motivi, dichiarata all’esito dell’udienza pubblica, in Archivio Penale, 2019 n. 2, Tra gli avvocati penalisti è diffusa la convinzione che l’esito del ricorso per cassazione dipenda, attualmente, da variabili ignote al momento della sua preparazione e della sua presentazione”.

Sono inoltre previste situazioni ugualmente sanzionate da inammissibilità specificamente riferite al ricorso per cassazione. Sono presi in considerazione in questo secondo ambito i ricorsi proposti per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente infondati oppure volti a dedurre violazioni non contestate nei motivi d’appello (art. 606, comma 3 c.p.p.), fatta eccezione in quest’ultimo caso per i ricorsi immediati in cassazione (art. 569 c.p.p.) e per le questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in appello (art. 609, comma 2 c.p.p.), oppure sottoscritti da un difensore non iscritto all’albo dei patrocinanti in Cassazione o proposti personalmente dall’imputato (art. 613 c.p.p.).

Ognuna delle situazioni elencate rende geneticamente inammissibile il ricorso cui è riferita e comporta l’attivazione della procedura regolata dall’art. 611 c.p.p.: il presidente della Corte di cassazione, ove il consigliere delegato abbia rilevato la ricorrenza di una causa di inammissibilità, assegna il ricorso alla settima sezione il cui presidente fissa una data per la decisione in camera di consiglio in esito alla quale sarà dichiarata l’inammissibilità o, in alternativa, saranno restituiti gli atti al presidente della corte per l’assegnazione ad una delle sezioni ordinarie; la procedura è ulteriormente semplificata e l’inammissibilità è dichiarata de plano per i casi di ricorsi presentati da soggetti non legittimati o riferiti a provvedimenti non impugnabili o che non abbiano osservato le disposizioni dettate dai citati artt. 581, 582, 583, 585 e 586 c.p.p. Fin qui il legislatore.

La giurisprudenza della Cassazione

 La regolamentazione normativa esposta in sintesi non basta a se stessa. Vi si rinvengono spesso enunciazioni linguistiche che generano una richiesta di senso. Ci si riferisce ai non pochi casi in cui il legislatore traccia una linea di confine che il ricorrente deve oltrepassare affinché il motivo che ha dedotto raggiunga il suo scopo fisiologico.

La loro sottolineatura è sempre affidata a un aggettivo o a un avverbio. Così avviene per l’enunciazione specifica dei motivi (artt. 581, comma 1, lettera d c.p.p.), la prova decisiva (art. 606, comma 1, lettera d c.p.p.), la manifesta illogicità della motivazione (art. 606, comma 1, lettera e c.p.p.), i motivi manifestamente infondati (art. 606, comma 3 c.p.p.).

Questi termini, pur potendo apparire talvolta come semplici indicatori di quantità (decisivo è più che rilevante e significativo; manifesto è ciò che è evidente a tutti ed esprime quindi il grado massimo della chiarezza), implicano indistintamente un giudizio di valore.

Ad esempio, secondo Cass. Pen., Sez. VII, 45938/2018, “Deve ritenersi “decisiva”, secondo la previsione dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia, ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante”.

In questa prospettiva la decisività è frutto di un confronto tra la prova e la motivazione oppure, in alternativa, è ciò che è capace di destrutturare la sentenza e le sue fondamenta.

Entrambe le opzioni richiedono non una semplice presa d’atto ma una valutazione che deve attingere il cuore del giudizio, ciò che davvero ne ha determinato l’esito. Diventa in tal modo preminente, in questo caso e negli altri, il compito dell’interprete cui spetta tracciare la linea di confine posta dal legislatore. Si tratta adesso di comprendere, in direzione delle più frequenti cause di inammissibilità, come sia stato assolto questo mandato e quale rapporto sia venuto ad instaurarsi tra diritto vigente e diritto vivente.

Altrettanto importante sarà verificare, come del resto precisato fin dalla premessa, se l’interprete abbia debordato dal suo compito e tradito quel mandato.

In questo primo scritto esaminiamo il principio della necessità dell’autosufficienza

Chi scrive di diritto non può ignorare il significato che ad esso viene attribuito dalla Corte suprema di cassazione.

È il giudice che, per attribuzione ordinamentale, fissa il diritto oggettivo dello Stato, quello che dovrebbe valere per tutti i cittadini, indirizzare le decisioni delle corti di merito e assicurare la ragionevole prevedibilità degli esiti delle procedure giurisdizionali.

È, appunto, un giudice “supremo” e la sua supremazia è quella di chi ha l’ultima parola e quindi, per definizione, non sbaglia mai.

Un potere tremendo, che ha molto a che fare con la ragione giustificativa della rubrica di cui questo scritto è parte.

Il diritto penale ha un ruolo sempre più importante nelle politiche legislative contemporanee e chi ne definisce il senso e gli effetti diventa per ciò stesso un protagonista di primo piano della vita pubblica ed entra in profondità nelle vite private.

Non si esprime alcun giudizio su questo fenomeno, ci si limita a constatarlo.

Si indicano invece alcuni segnali linguistici, tutti tratti da sentenze archiviate nella banca dati Italgiure della Corte di Cassazione, che sembrano adatti a svelare, in termini puramente indiziari, il modo in cui il giudice supremo guarda a sé stesso e alla propria funzione.

Nessuno di essi ha un valore generalizzato ed anzi alcuni possono essere considerati di nicchia ma l’interesse rimane. 
 

La necessità dell’“autosufficienza”

Oltre cinquemila sentenze enunciano il sacro principio dell’”autosufficienza”.

Meglio spiegarlo con le parole di una di esse: il ricorrente non si avvede che era suo onere far risultare tale ultima circostanza (non documentata dalla sentenza impugnata) mediante modalità idonee, quali l’integrale riproduzione in ricorso del relativo passo del verbale di udienza, l’allegazione in copia, o, quanto meno, l’individuazione precisa dell’atto nel fascicolo processuale di merito, in modo da non costringere la Corte di cassazione alla lettura indiscriminata del fascicolo stesso e ad una ricerca “al buio”.

In queste poche ma chiarissime righe c’è tutto quello che serve.

Vuoi che il giudice di legittimità ti prenda sul serio? Vuoi che creda alla verità che affermi? Se lo vuoi davvero, non ti basta proclamarla, devi portarla fisicamente dentro il Palazzaccio, incorporata (o, se si preferisce, saldamente ancorata) nel ricorso. Non ce l’hai, non te la trovi tra le tue carte? Ti consento un’alternativa ma bada che è l’ultima, oltre non c’è più nulla: individua con rigore euclideo l’atto da cui desumi la tua verità e dimmi con altrettanta precisione dove si trova e quali sono la pagina e il rigo che dovrei leggere.

Non lo vuoi fare? Pretendi di costringermi a una “lettura indiscriminata”? Addirittura, ti salta in mente di impormi una “ricerca al buio”? Se è così, non sei autosufficiente e chi non basta a se stesso va incontro all’inammissibilità.

Anche per questo aspetto vengono in mente per assonanza una miriade di situazioni, accomunate dalla condizione di qualcuno che non ha ancora imparato a fare, ha dimenticato come si fa, ha perso la capacità di fare, non ha avuto la possibilità di fare: nella normalità delle relazioni umane a questa condizione di difficoltà si reagisce con l’aiuto e la solidarietà.

Non così di fronte alla Cattedra nomofilattica: la sua supremazia, i suoi compiti e i suoi flussi di lavoro non contemplano la solidarietà tra le opzioni possibili.

L’autosufficienza, questo termine racconta una storia di successo. Si tratta, è bene chiarirlo fin d’ora, di un onere di esclusiva creazione giurisprudenziale, posto a carico del ricorrente e concepito in modo progressivamente più gravoso.

Una ricerca, condotta con la metodologia di inserire la parola “autosufficienza” nella banca dati Italgiure del sito web della Corte di cassazione, ha permesso di accertare che, alla data del 15 giugno 2021, ben 5.622 decisioni contenevano la parola “autosufficienza”. Anche in questo caso il primato dell’uso del termine spetta alla settima sezione, seguita dalla seconda.

All’istituto è estranea qualsiasi funzione di garanzia, anzi ne è l’antitesi, poiché, introducendo una causa di inammissibilità non prevista dalla legge, nega a ricorsi perfettamente legittimi la chance di essere presi in considerazione ed eventualmente accolti.

La passata pretesa della giurisprudenza di legittimità era limitata alla formulazione chiara, specifica, completa e precisa dei motivi di impugnazione.

Di seguito fu richiesta una precisa indicazione degli atti e verbali che contenevano i dati cui erano riferiti i motivi di contestazione.

La versione ancora più aggiornata pretende la trascrizione integrale degli atti all’interno del ricorso. Serve sottolineare che questa causa di inammissibilità di conio giurisprudenziale non è in alcun modo giustificata dalla riforma dell’art. 606 c.p.p. operata dalla legge n. 46/2006.

La novella riguardò infatti, per quanto qui interessa, solo il vizio della mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, chiarendo che esso andava rilevato quando risultasse non solo dal testo del provvedimento impugnato ma anche da altri atti processuali specificamente indicati nei motivi di gravame. La riforma aveva una chiara funzione garantistica.

In precedenza, infatti, al giudice di legittimità era precluso l’accesso ad atti processuali diversi dalla decisione impugnata il che gli impediva perfino di verificare se prove decisive fossero state ignorate nella fase di merito.

Il legislatore del 2006 considerò che la regolamentazione allora vigente limitasse in modo grave e ingiustificato il soddisfacimento di primarie esigenze di giustizia e concesse più ampi margini di rappresentazione al ricorrente attraverso, appunto, la facoltà di indicare specificamente gli atti processuali significativi per la dimostrazione del vizio di motivazione.

Tutto ci si poteva attendere tranne che l’apertura garantista della legge n. 46 fosse usata per scopi esattamente opposti, cioè come un grimaldello per estendere il principio dell’autosufficienza del ricorso a fattispecie che nulla avevano a che fare col vizio di motivazione. Eppure, è esattamente ciò che è avvenuto.

Quel principio è stato infatti progressivamente esteso anche ai vizi in procedendo sebbene la norma che li regola, cioè l’art. 606 comma 1 lettera c) c.p.p., non fosse stata interessata dalla riforma del 2006. Per di più, l’estensione fu motivata anche sul presupposto che l’autosufficienza, in quanto richiesta dall’art. 360 n. 5 c.p.c., fosse diventata una sorta di principio generale dell’ordinamento che si estendeva dunque oltre i confini della giurisdizione civile.

Non si diede alcun peso, ovviamente, al fatto che il suddetto art. 360 c.p.c. si riferisse ad un vizio motivazionale. Tanto ciò è vero che autorevoli opinioni critiche verso questo modo di vedere si manifestarono all’interno della stessa Corte Suprema.

Così si espresse, ad esempio, un magistrato di quell’ufficio, G. Conti, L’autosufficienza del ricorso nel giudizio penale in cassazione, 2012: “Si è già osservato che non si può invocare la nuova formulazione della lett. e) dell’art. 606 a proposito degli errores in procedendo, dato che essi appartengono al distinto caso della lett. c). Vi è stato però di fatto nella giurisprudenza penale un trascinamento della tematica dell’autosufficienza del ricorso su questo tipo di vizio, influenzato dalla giurisprudenza civile, che aveva come punto di riferimento l’art. 366, comma primo, n. 6, cod. proc. civ., riferibile ad ogni vizio deducibile ex art. 360 […]. Si tratta però […] di una linea giurisprudenziale priva di base normativa”.

Un’opinione altrettanto netta fu manifestata da Ernesto Lupo, presidente della Suprema Corte, in occasione di un incontro di formazione, focalizzato sugli epiloghi decisori del processo penale in Cassazione, avvenuto il 13 dicembre 2012: “Quello di autosufficienza è un concetto che la giurisprudenza penale farebbe bene a non utilizzare”.

Nessuno di questi auspici ha avuto un qualche seguito e l’autosufficienza continua a prosperare e tracimare ben oltre l’ambito del vizio di motivazione.

E così, secondo Cass. Pen., Sez. I, 51876/2019 e molte altre decisioni dello stesso tenore: “L’impugnazione manca di autosufficienza, e non può essere scrutinata per tale assorbente ragione. Nel denunciare il vizio di travisamento della prova in ordine alla circostanza della previa conoscenza del provvedimento cui ottemperare, il ricorrente non si avvede che era suo onere far risultare la relativa circostanza mediante modalità idonee, quali l’integrale riproduzione in ricorso, o l’allegazione in copia, degli atti implicati nella censura, ovvero, quanto meno, l’individuazione precisa di essi nel fascicolo processuale di merito, in modo da non costringere la Corte di cassazione alla lettura indiscriminata del fascicolo stesso e ad una ricerca al buio”.

Era lecito attendersi che qualcosa potesse cambiare dopo l’introduzione, dovuta all’art. 7, comma 1, D.lgs. 11/2018, dell’art. 165-bis tra le disposizioni di attuazione del codice di rito il cui secondo comma dispone testualmente che: “Nel caso di ricorso per cassazione, a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, è inserita in separato fascicolo allegato al ricorso, qualora non già contenuta negli atti trasmessi, copia degli atti specificamente indicati da chi ha proposto l’impugnazione ai sensi dell’articolo 606, comma 1, lettera e), del codice; della loro mancanza è fatta attestazione”.

Sembrerebbe una disposizione di piana comprensione: se il ricorrente per cassazione deduce il vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione e indica a tal fine specifici atti del processo, la cancelleria del giudice la cui decisione è impugnata è tenuta a verificare se tra gli atti trasmessi alla Suprema Corte vi siano quelli indicati dal ricorrente medesimo; ove ne accerti la mancanza, è tenuta a reperirli e inserirli in un fascicolo da allegare al ricorso; se gli atti in questione mancassero, la cancelleria deve attestare la circostanza.

In altri termini: il ricorrente indica gli atti, la cancelleria li procura e li trasmette.

Non è così per la Corte di Cassazione.

Si legge infatti in Cass. Pen., Sez. II, 21801/2021, che “Quando viene invocato un atto che contiene un elemento di prova, il principio della ‘autosufficienza del ricorso’ costantemente affermato, in relazione al disposto di cui all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., dalla giurisprudenza civile deve essere rispettato anche nel processo penale, sicché è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti medesimi (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in precedenza), dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto, a meno che il “fumus” del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso”.

Lo stesso principio è ribadito da Cass. Pen., Sez. IV, 21576/2021, secondo la quale: “Sono inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, quei motivi che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contengano la loro integrale trascrizione o allegazione”.

Infine, e in questo caso previo un confronto con il citato art. 165-bis, Cass. Pen., Sez. VII, 1122/2020, precisa che: “Quando viene infatti invocato un atto che contiene un elemento di prova il principio dell’autosufficienza del ricorso’ deve essere rispettato anche nel processo penale, sicché è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti medesimi, dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto. Tale interpretazione deve essere aggiornata dopo l’entrata in vigore dell’art. 165-bis comma 2 disp. att. cod. proc. pen., che prevede che copia degli atti (specificamente indicati da chi ha proposto l’impugnazione ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) del codice) è inserita a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato in separato fascicolo da allegare al ricorso e che, nel caso in cui tali atti siano mancanti, ne sia fatta attestazione. Sebbene la materiale allegazione con la formazione di un separato fascicolo sia devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, resta in capo al ricorrente l’onere di indicare nel ricorso gli atti da inserire nel fascicolo, che ne consenta la pronta individuazione da parte della cancelleria, organo amministrativo al quale non può essere delegato il compito di identificazione degli atti attraverso la lettura e l’interpretazione del ricorso. È così sempre necessario il rispetto del principio di autosufficienza del ricorso, che si traduce nell’onere di puntuale indicazione da parte del ricorrente degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione delegata alla Cancelleria […]. Ciò non è stato fatto dal ricorrente, né alla Corte può essere demandata la ricerca e l’interpretazione della prova dichiarativa così evocata, ovvero – per altro verso – l’allegazione in blocco della trascrizione degli atti processuali, postulandone la lettura da parte della Suprema Corte”.

Serve precisare che nel caso di specie il ricorso era fondato su un unico motivo con cui erano dedotti congiuntamente i vizi di violazione di legge e di travisamento di una singola prova dichiarativa, più precisamente la deposizione di una teste.

Dalla motivazione della sentenza citata si ricava inoltre che il ricorrente aveva riportato nell’atto di impugnazione lo stralcio della deposizione che riteneva significativo ai fini della dimostrazione del travisamento.

Non pare proprio che la cancelleria interessata dovesse compiere alcuna attività identificativa riguardo all’atto cui il ricorso era riferito, nessuna incertezza essendo possibile al riguardo.

Ciò nondimeno, è stato ugualmente attivato il meccanismo di trasmissione alla settima sezione e il collegio ad quem, anziché restituire gli atti al presidente della Corte, ha ravvisato l’inammissibilità rimproverando al ricorrente di non avere indicato specificamente alla cancelleria l’atto da allegare al ricorso o, in alternativa, di non averne trascritto integralmente il contenuto nel ricorso stesso.

Alla Corte non si può chiedere infatti di cercare e interpretare essa stessa la prova evocata né si può immaginare di cavarsi d’impaccio allegando tutti gli atti processuali e pretendendone la lettura.

“Io nacqui a debellar, tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia”

Tommaso Campanella