x

x

Permessi premio: domanda ammissibile per il detenuto non collaborante?

nota a Cassazione Penale, Sez. I, 10 settembre 2021 (ud. 14 luglio 2021), n. 33743
Cairo
Ph. Antonio Capodieci / Cairo

Con la sentenza in commento la Prima sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata in merito all’ammissibilità della domanda di permesso premio, avanzata dal detenuto non collaborante, per i reati di cui all’art. 4-bis, comma 1 ord. pen., dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 253 del 2019.

 

Permessi premio: di cosa si tratta

I permessi premio sono permessi, di durata non superiore a quindici giorni, che possono essere concessi ai condannati che hanno tenuto regolare condotta e che non risultano socialmente pericolosi, per consentire loro di coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro.

L’istanza di concessione dei permessi premio deve essere presentata al Magistrato di Sorveglianza territorialmente competente, il quale prima di pronunciarsi sull’istanza sente il direttore dell’istituto penitenziario e assume ogni informazione circa le ragioni addotte a sostegno della domanda. La durata complessiva dei permessi non può superare i quarantacinque giorni in ciascun anno di detenzione.

Si tratta, pertanto, di uno strumento di grande importanza nel complessivo programma di trattamento penitenziario, che concede, a fini rieducativi, i primi spazi di libertà al condannato.

 

Permessi premio: l’illegittimità costituzionale

Con la sentenza n. 253 del 2019, la Corte Costituzionale ha dichiarato (pur rinviando la trattazione al maggio del 2022) l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, a norma dell’art. 58-ter del medesimo ord. pen., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

Oltretutto, la Corte ha esteso tale conclusione anche ai detenuti per gli altri delitti contemplati nell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen., sancendo l’illegittimità costituzionale della preclusione assoluta di accesso ai benefici penitenziari e ai permessi premio del condannato, non collaborante, per i delitti ivi indicati.

Per il Giudice delle leggi, pur essendo possibile presumere il mantenimento del soggetto collaborante con l’organizzazione criminale, è irragionevole non permettere allo stesso la possibilità di fornire prova contraria.

Non sembrerebbe essere sufficiente, tuttavia, dimostrare un regolare comportamento carcerario o la mera partecipazione al percorso rieducativo, né una semplice dichiarazione di dissociazione. Per vincere la presunzione di pericolosità occorre allegare la sussistenza di elementi capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale.

Tale conclusione, a cui è pervenuta la Corte Costituzionale, seppur assolutamente condivisibile deve essere meglio calibrata, al fine di comprendere in concreto quali siano gli oneri probatori gravanti sul condannato per vincere la presunzione e ottenere i permessi premio.

 

Permessi premio: la decisione della Prima sezione penale

La Prima sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 33743 del 2021, depositata il 10 settembre scorso, si è pronunciata in merito all’ammissibilità della domanda di permesso premio avanzata dal detenuto non collaborante, per i reati di cui all’art. 4-bis, comma 1 ord. pen., successivamente alla sentenza della Corte Costituzionale, prendendo, per l’appunto, posizione sul tema degli oneri di allegazione gravanti sul condannato.

Il caso trae origine dall’istanza di permesso premio presentata da un detenuto, non collaborante, condannato per omicidio e associazione di stampo mafioso (istanza rigettata anche in sede di reclamo).

Per il Tribunale di Sorveglianza, infatti, pur avendo il detenuto rappresentato circostanze quali la regolarità del proprio percorso trattamentale e il lungo periodo di detenzione sofferto, non è stato in grado di allegare alcunché circa l’operatività dell’associazione e degli altri sodali nel territorio d’origine.

La Suprema Corte, al contrario, ha ritenuto fondato il ricorso, statuendo, in tema di onere di allegazione, che:

[…] il richiedente è tenuto ad illustrare gli elementi fattuali che abbiano una concreta portata «antagonista» sul piano logico rispetto al fondamento della presunzione relativa di pericolosità […] ma, a ben vedere, non può essere chiamato a riferire (in sede di domanda introduttiva) su circostanze di fatto estranee alla sua esperienza percettiva e, soprattutto non può fornire – in via diretta – la prova negativa diretta di una condizione relazionale, quale è il pericolo di ripristino dei contatti.

Per la Cassazione, il giudizio prognostico sul pericolo spetta in ogni caso al giudice, su cui il condannato può incidere in modo solo relativo, manifestando la correttezza del percorso rieducativo.

Non può essere richiesta al condannato l’allegazione di elementi che non rientrano nella sua sfera cognitiva, come la sorte degli altri sodali e l’operatività dell’associazione mafiosa. È infatti illogico chiedere al soggetto detenuto di provare circostanze avvenute al di fuori delle mura carcerarie e indipendenti dalla sua condotta.

La pronuncia della Prima sezione penale traccia, così, le linee guida da seguire, in concreto, in tema di oneri probatori gravanti sul condannato, per valutare al meglio le istanze di permesso premio a seguito della decisione della Corte Costituzionale che, in attesa di un intervento legislativo che riformi la materia, ha visto esibire l’incostituzionalità della preclusione assoluta, con rinvio della trattazione al 22 maggio 2022.